AXA Italia si scusa con i medici italiani per la campagna pubblicitaria

(da portale.fnomceo.it)   “Prendiamo atto delle scuse formali di AXA Italia, già anticipate per le vie brevi, per la trovata pubblicitaria quantomeno infelice. Apprezziamo il fatto che, dopo la nostra segnalazione, la campagna sia stata immediatamente ritirata dalle pagine social della compagnia. Chiediamo anche che siano eliminati i post condivisi da profili privati che hanno rimesso in circolazione lo spot”. Così il Presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli.

Al link successivo la lettera di scuse, a firma dell’Amministratore delegato Giacomo Gigantiello.   https://portale.fnomceo.it/axa-italia-si-scusa-con-i-medici-italiani-per-la-campagna/

Commento del Dott GG Pascucci:le scuse si accettano sempre, e il nostro Presidente ha fatto bene, ma ricordiamo tutti la pubblicità, offensiva e crudele in un momento in cui quasi nessun MMG riesce a prendersi qualche giorno di ferie, in cui campeggiava una foto di un mare blu e tre persone impegnate in un affascinante snorkeling. (Vedi anche https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=106520)   La pubblicità voleva presentare un prodotto assicurativo del ramo salute, ma così AXA si è guadagnata comunque il disprezzo dei medici di medicina generale italiani. Certe cose non si possono dimenticare. E tanti colleghi stanno già disdicendo polizze con questa compagnia  

COVID-19 – Impatto dei vaccini, arrivano nuove stime dagli USA

(da Univadis)   Secondo le stime, la vaccinazione contro COVID-19 ha permesso di prevenire negli Stati Uniti milioni di infezioni e ricoveri in ospedale e oltre 200.000 decessi in meno di un anno.   “La vaccinazione è un intervento di salute pubblica efficace, con un impatto dimostrabile e che, in combinazione con misure di intervento non farmacologiche, sarà fondamentale per mitigare la pandemia di COVID-19”.    Sono le conclusioni di uno studio statunitense pubblicato su ‘JAMA Network Open’, nel quale sono stati stimati gli effetti della vaccinazione anti-COVID-19 in termini di prevenzione di infezioni, ricoveri in ospedale e decessi nella prima fase di attuazione del programma vaccinale negli Stati Uniti, ovvero tra dicembre 2020 e settembre 2021. “Il numero di infezioni da SARS-CoV-2 e di ricoveri o decessi associati a COVID-19 tra i vaccinati, indipendentemente dall’effetto di una ridotta trasmissione del virus, rappresenta una misura chiave per valutare l’impatto del vaccino” scrivono gli autori, guidati da Molly K. Steele, dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta, primo nome dell’articolo.

Per arrivare a stimare l’impatto della vaccinazione, Steele e colleghi hanno portato a termine uno studio di modelling, effettuando anche stratificazioni per stato, mese e gruppo di età (18-49 anni, 50-64 anni, maggiore o uguale a 65 anni). Le procedure utilizzate, che giustificano almeno in parte le differenze con altri studi sullo stesso tema, sono descritte in dettaglio nell’articolo, nel quale si precisa anche che nella “popolazione vaccinata” sono stati inclusi tutti i soggetti di età uguale o superiore a 18 anni che avevano completato il ciclo di due vaccinazioni con vaccino a mRNA (Pfizer, Moderna) oppure una vaccinazione con il vaccino Janssen.   E i numeri non lasciano dubbi sul valore della vaccinazione.    In un periodo di 10 mesi, tra inizio dicembre 2020 e fine settembre 2021, le stime parlano infatti di 27 milioni di infezioni, 1,6 di ricoveri in ospedale e 235.000 decessi prevenuti nella popolazione adulta statunitense vaccinata.    In termini percentuali, nello stesso periodo si stima che la vaccinazione sia riuscita a prevenire il 30% di tutte le infezioni attese, il 33% di tutti i ricoveri attesi e il 34% di tutti i decessi attesi nella popolazione adulta vaccinata. Stime che aumentano con l’aumentare della copertura vaccinale e che nel mese di settembre 2021 si sono attestate, rispettivamente, a 52%, 56% e 58%.    “Difficilmente riusciremo a definire il numero esatto di vite salvate grazie alla campagna vaccinale, ma le stime ci dicono comunque che c’è ancora spazio per migliorare. La domanda è come possiamo fare per ottenere questo miglioramento” si legge in un editoriale di commento pubblicato sulla stessa rivista.

Diabete e attività fisica: un legame profondo

(da Univadis)   Messaggi chiave:  a) L’attività fisica si associa a una riduzione importante dell’incidenza di diabete di tipo 2.  b) Il profilo dei metaboliti ha mostrato differenze significative nei partecipanti in base alla presenza o assenza di attività fisica.     Le persone che svolgono attività fisica regolarmente hanno un profilo di espressione dei metaboliti più sano e hanno un rischio ridotto di diabete di tipo 2 rispetto a chi è sedentario. Lo scrivono sulle pagine della rivista Metabolites, i ricercatori guidati da Susanna Maria Kemppainen, dell’Università della Finlandia Orientale di Kuopio.  “Il diabete di tipo 2 ha assunto ormai il carattere di una epidemia a livello globale” esordiscono gli autori, ricordando che dieta e attività fisica sono tra i fattori modificabili e legati allo stile di vita che più influenzano il rischio di sviluppare la malattia. Per comprendere a fondo i meccanismi alla base dell’associazione tra attività fisica e diabete di tipo 2, Kemppainen e colleghi hanno coinvolto nella loro ricerca un totale di oltre 8.700 uomini finlandesi senza diabete al basale, reclutandoli dalla coorte Metabolic Syndrome in Men (METSIM) e raccogliendo informazioni sul livello di attività fisica attraverso un questionario validato.   “Abbiamo inoltre misurato l’associazione di 1.260 metaboliti con l’attività fisica in 7.271 partecipanti” aggiungono gli autori. In base ai livelli di attività fisica, i partecipanti sono stati suddivisi in 4 gruppi: attività fisica scarsa o assente, attività fisica occasionale o legata a qualche hobby, attività fisica regolare ≤2 volte a settimana (almeno 30 minuti alla volta) e attività fisica regolare ≥3 volte a settimana (almeno 30 minuti alla volta). Ebbene, le analisi hanno mostrato una riduzione del 39% nel passaggio a diabete di tipo 2 nei partecipanti del gruppo che svolgeva maggiore attività fisica. Questo beneficio, seppur di misura minore (30%) era visibile anche in chi svolgeva attività fisica ≤ 2 volte a settimana.   L’effetto dell’attività fisica si è fatto sentire anche sul profilo dei metaboliti. “Abbiamo identificato 198 metaboliti associati in maniera significativa all’attività fisica” dicono gli esperti, sottolineando che questa è la più ampia analisi sul profilo di metaboliti associato all’attività fisica. “Alcuni di questi metaboliti erano già noti, ma molti sono nuovi e tra questi sono inclusi steroidi, aminoacidi, imidazoli e acidi carbossilici” aggiungono. Come fanno notare gli autori della ricerca, molti dei metaboliti associati ad alti livelli di attività fisica sono anche stati associati a una dieta sana in precedenti studi, per esempio i carotenoidi o gli acidi biliari.   “Il nostro studio mostra che l’attività fisica si associa a numerosi cambiamenti a livello di metaboliti e a una migliore aderenza a stili di vita sani” concludono Kemppainen e colleghi.

(Kemppainen SM, Silva LF, et al. Metabolite Signature of Physical Activity and the Risk of Type 2 Diabetes in 7271 Men. Metabolites 2022. Doi: 10.3390/metabo12010069)

10 secondi su una gamba sola per conoscere il rischio di morte

(da Univadis)   Gli adulti di mezza età e gli anziani che non riescono a restare in equilibrio su una gamba sola per 10 secondi hanno un rischio più alto di morte.    L’introduzione di questo test nell’esame fisico di routine potrebbe essere utile per la valutazione del rischio di mortalità.   L’incapacità delle persone di mezza età o anziane di completare un test che prevede di restare in equilibrio su una sola gamba per 10 secondi si collega a un rischio più alto di mortalità per tutte le cause e quindi a un’aspettativa di vita più breve. È la conclusione di uno studio apparso su British Journal of Sports Medicine, dal quale emerge come la capacità di portare a termine il test (il 10-s OLS, da 10 second one-legged stance) dia informazioni prognostiche rilevanti in aggiunta a quelle fornite da età, sesso e altre variabili antropometriche e cliniche. Per gli autori, il test da un feedback rapido e obiettivo sull’equilibrio statico e potrebbe essere introdotto nel corso delle visite mediche. “L’applicazione di routine di un test dell’equilibrio statico semplice e sicuro – il 10-s OLS – aggiunge informazioni utili sul rischio di mortalità negli uomini e nelle donne di mezza età e anziani” scrivono.

L’equilibrio, contrariamente alla capacità aerobica, alla forza muscolare e alla flessibilità, si conserva abbastanza bene fino alla sesta decade di vita, quando inizia a diminuire rapidamente. “Tuttavia, la valutazione dell’equilibrio non è integrata regolarmente nell’esame clinico delle persone di mezza età e anziane” si legge.   I ricercatori hanno analizzato i dati di 1.702 persone, per la maggior parte uomini, che avevano preso parte allo studio di coorte CLINIMEX Exercise e che alla prima visita (2008-2020) avevano tra i 51 e 75 anni (età media di circa 61 anni). Per misurare il loro equilibrio statico si è fatto ricorso a un test durante il quale i partecipanti dovevano restare per 10 secondi su una gamba sola (dando loro tre possibilità in tutto per superarlo). In particolare, bisognava tenere la parte dorsale del piede rialzato appoggiata al polpaccio dell’altra gamba, le mani dritte lungo il corpo e lo sguardo fisso davanti a sé.

Il 20,4% dei partecipanti (348) non ha passato il test. L’incapacità di completare il test aumenta con l’età e quasi raddoppia ogni cinque anni: non ha completato il test il 4,7%, l’8,1%, il 17,8% e il 36,8% delle persone rispettivamente di 51–55, 56–60, 61–65 e 66–70 anni. Oltre la metà (53,6%) di quelle tra i 71 e i 75 anni non è stata proprio in grado di effettuarlo. La probabilità dei più anziani di non completarlo era superiore di 11 volte di quella degli individui di 20 anni più giovani.   In un follow-up mediano di 7 anni, sono morti 123 partecipanti (7,2%), soprattutto per cancro (32%), cause cardiovascolari (30%), malattie del sistema respiratorio (9%) e complicazioni dovute al COVID-19 (7%). La percentuale di decessi è più alta tra coloro che non hanno completato il test (17,5%) che nelle persone che sono riuscite a effettuarlo (4,6%), con una differenza assoluta del 12,9%. Non è stata osservata alcuna differenza nelle cause della morte.   Ciò che invece cambia tra i due gruppi è lo stato di salute, peggiore in linea generale tra le persone incapaci di finire il test. Tra di esse c’era una maggiore percentuale di obesi, di individui con malattia coronarica, ipertensione o dislipidemia e, soprattutto, con il diabete (37,9% contro 12,6%).    “È interessante indagare se valutazioni dell’equilibrio statico più dettagliate o sofisticate, come una misurazione dello spostamento del centro di pressione, il numero di prove richieste, le diverse posizioni di braccia o del piedi e/o il fatto di avere gli occhi chiusi mentre si è in equilibrio su una gamba, possano contribuire ad analisi di sopravvivenza ancora più potenti” affermano gli autori.

(Araujo CG et al. Successful 10-second one-legged stance performance predicts survival in middle-aged and older individuals FREE. Br J Sports Med 2022. Doi: 10.1136/bjsports-2021-105360.)

1 86 87 88 89 90 245