La comunicazione in medicina: come i medici non devono parlare
(da DottNet) “No”, le donne incinte del primo figlio dopo una certa età, dai 35 in su, “non chiamatele ‘primipare attempate'”. E “a quel paziente che siede davanti alla vostra scrivania non proponete ‘check-up’, ma un controllo generale. Niente casi ‘borderline’, semmai al limite. E il ‘booster’ in Italia è un richiamo vaccinale. Mentre le pastiglie, la nonnina malata cronica le trova meglio nel portacompresse che nel ‘blister'”. Persino il jet lag avrebbe un ‘alter ego’ in versione tricolore: “E’ la fusopatia”. Il messaggio è uno: “In medicina non esistono parole inglesi non traducibili. La comunicazione del medico con il paziente va migliorata” e per farlo occorre chiudere in soffitta “tecnicismi, acronimi, forestierismi, parole ansiogene e con sfumature molto negative”. E’ l’invito che Italo Farnetani, professore ordinario di Pediatria, rivolge ai colleghi camici bianchi. L’occasione è stata una giornata di studio sul tema ‘La comunicazione in medicina’, promossa dall’Ispettorato nazionale del Corpo militare volontario della Croce rossa italiana. La prima riflessione di Farnetani, professore dell’università Ludes-United Campus of Malta, riguarda proprio l’inglese che è la ‘lingua universale’ della scienza: è diventata “il codice di comunicazione internazionale a livello scientifico e tecnico, come in antichità era il latino e greco. Quando ci si muove dunque in un ambito internazionale si deve senz’altro usare l’inglese – puntualizza all’Adnkronos Salute – ma quando ci si rivolge ai pazienti è indispensabile parlare italiano. L’uso dei forestierismi rende più incomprensibile il discorso, perciò la comunicazione con i pazienti”. Ma non basta far piazza pulita degli ‘imbucati’ inglesi nel vocabolario tricolore per rendere il ‘medichese’ più digeribile per tutti. “Ci sono anche parole di questo mondo che spaventano e vengono utilizzare con troppa disinvoltura dai camici”, osserva Farnetani che suggerisce “più cautela nell’usare termini ansiogeni, come ‘focolaio'”, mantra quotidiano in questi anni di pandemia. “Bandite anche le sigle. Ancora, abbiamo visto sui media esperti illustri citare le evidenze disponibili. Forse – precisa – parlare di prove o dati sarebbe stato un modo più semplice e diretto per arrivare alle persone che ascoltano”. Il pediatra non ama neanche il termine ‘hub vaccinale’, protagonista assoluto in era Covid. L’uso preferenziale dell’italiano può fare una drammatica differenza quando si deve dare la posologia di un farmaco. “Tre ‘puff’ al dì? Meglio 3 spruzzate al giorno”, sorride l’esperto che si chiede anche: “Cosa toglie il rivolgersi a un paziente con molti chilogrammi di troppo definendolo sovrappeso, piuttosto che obeso?”. Insomma, conclude Farnetani, “i medici e tutto il personale sanitario hanno la responsabilità di perfezionare l’uso della lingua, perché la lingua non è un organismo naturale”, che vive di vita propria. “Dipende da chi la parla”.