Alzheimer e Parkinson potrebbero avere un’origine comune
(da DottNet) Alzheimer e Parkinson potrebbero nascere dallo stesso meccanismo neurodegenerativo, per poi differenziarsi solo in seguito: ad avanzare questa nuova ipotesi, che potrebbe cambiare radicalmente l’approccio alle due malattie, è uno studio pubblicato sulla rivista IBRO Neuroscience Reports da tre ricercatori dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Istc). I tre studiosi – Daniele Caligiore, Flora Giocondo e Massimo Silvetti – hanno ricomposto come in un puzzle i risultati di diverse ricerche su Alzheimer e Parkinson condotte in vari ambiti, dalla genetica alla neurofisiologia. Sono arrivati così a ricondurre le due malattie allo stesso fenomeno neurodegenerativo che hanno chiamato NES (Neurodegenerative Elderly Syndrome, Sindrome neurodegenerativa dell’anziano) e che sarebbe caratterizzato da tre stadi progressivi.
La prima ‘fase di semina’, osserva Caligiore, “inizia molti anni prima rispetto al manifestarsi dei sintomi clinici e in essa si può avere una progressiva perdita di neuroni che producono noradrenalina e serotonina. Proponiamo che tale danno iniziale possa essere causato principalmente dal malfunzionamento di una proteina molto diffusa nel nostro corpo, l’alfa-sinucleina. Le disfunzioni iniziali possono essere dovute a diversi fattori genetici, ambientali o legati allo stile di vita, chiamati ‘semi’, e possono interessare diverse parti del corpo. In particolare, l’alfa-sinucleina malfunzionante può avere diverse vie d’accesso al cervello: potrebbe avere origine in situ o essere trasportata dall’intestino”. Il tipo di seme o fattore scatenante e la parte del cervello e del corpo interessata dalle disfunzioni iniziali di alfa-sinucleina, la via d’accesso e il tipo di neuromodulatore maggiormente coinvolto in questa fase embrionale della malattia influenzano la futura possibile progressione della NES verso la trasformazione in Parkinson o Alzheimer.
Nella seconda fase “iniziano a manifestarsi disfunzioni dei neuroni che sintetizzano il neuromodulatore dopamina e che si trovano in due regioni diverse del cervello: nell’area tegmentale ventrale (gestione degli aspetti cognitivi e motivazionali) e nella substantia nigra pars compacta (gestione degli aspetti motori)”, aggiunge Giocondo. “I sintomi clinici sono ancora silenziosi, grazie a meccanismi compensatori che mantengono l’equilibrio delle diverse concentrazioni di neuromodulatori”: perciò questa fase della NES è detta ‘di compensazione’. La terza e ultima fase è quella di biforcazione in cui “la NES diventa Alzheimer se l’area dopaminergica maggiormente colpita è l’area tegmentale ventrale, oppure diventa Parkinson se l’area più colpita è la substantia nigra pars compacta”, continua Silvetti.
Se confermata da futuri studi empirici, l’ipotesi NES potrebbe rivoluzionare la ricerca su queste due malattie neurodegenerative, indicando nuove strade per la diagnosi precoce e per lo sviluppo di terapie da attuare in fase precocissima, prima della manifestazione di sintomi clinici. “Anche l’intelligenza artificiale potrebbe essere uno strumento per verificare o confutare l’ipotesi NES. A questo proposito – racconta Caligiore – al Cnr-Istc stiamo sviluppando degli algoritmi di machine learning per combinare e analizzare grandi quantità di dati eterogenei (clinici, genetici, di risonanza magnetica) su Alzheimer e Parkinson messi a disposizione da database internazionali allo scopo di trovare delle traiettorie di neurodegenerazione comuni tra le due malattie”.