Quando il medico diventa paziente, un’indagine di Univadis Medscape

(da Univadis)  Siamo abituati a vedere i medici dalla parte di chi cura e non nelle vesti di pazienti e quando questi ruoli si invertono l’impatto può essere traumatico ma anche fonte di un rinnovato modo di interpretare la professione, più empatico e vicino all’esperienza di coloro che curano. A valutare l’impatto della malattia sui camici bianchi è un’indagine promossa da Univadis Medscape Italia e condotta su un campione di 1616 medici italiani, prevalentemente uomini (907 uomini vs 689 donne), che hanno deciso di condividere la propria esperienza anche mostrando delle vulnerabilità che comunemente non vengono associate alla figura del medico.   Dai risultati emerge, infatti, che per la maggior parte dei medici (57% del campione) le conoscenze e il background professionale aumentano, invece di ridurre, il timore delle malattie e come questo li porti anche ad approcciarsi alle cure in maniera diversa rispetto al paziente medio.  

Non sorprende il dato secondo il quale i medici ricevono più spesso trattamenti inusuali, intesi come cicli di cura più lunghi o trattamenti sperimentali, perché in grado di comprendere più facilmente le ragioni della proposta terapeutica e di capirne il valore. In generale, il 98% dei medici si ritiene più consapevole dei rischi associati all’uso di farmaci e tende per questo a fare più domande (62%), pur affidandosi in ultima istanza ai consigli dei colleghiNon emerge, invece, alcun tipo di percorso privilegiato verso sperimentazioni e trattamenti, a riprova di una deontologia medica che rimane salda; la maggior parte dei rispondenti conferma, infatti, che i farmaci e le terapie che vengono prescritte a un medico che si ammala sono le stesse proposte agli altri pazienti (74%) ed è raro che ci sia un accesso preferenziale alle sperimentazioni (11%). Anche l’uso di non far pagare le prestazioni mediche ai colleghi sembra essere caduto in disuso: il 39% dei rispondenti trova normale dover mettere mano al portafogli. Quello che si osserva è, semmai, è un accesso più rapido a visite e test (63%), grazie alla rete di conoscenze personali.

Come accade a molte persone, affrontare un’esperienza più o meno grave di malattia porta i medici a fare i conti non solo con un senso di paura e smarrimento iniziale per la nuova condizione, spesso improvvisa, ma anche e soprattutto a rivedere il loro modo di essere a partire dal modo di esercitare la professione. Il 68% del campione dichiara, infatti, di essere uscito cambiato dall’esperienza di malattia, e il 71% di essere diventato più empatico nei confronti dei pazienti e di riuscire a comprenderne meglio il loro stato d’animo. 

Un altro aspetto interessante riguarda il rapporto con i colleghi. Sebbene emerga una diffusa tendenza dei medici all’autocura – più della metà del campione (56%) dichiara di curarsi da solo per la maggior parte del tempo, provando a risolvere i problemi in autonomia – quando decide di rivolgersi a un collega il 78% riferisce di sentirsi al sicuro nelle sue mani. In particolare, i medici amano farsi curare da colleghi che conoscono, con cui lavorano o con i quali hanno studiato. Più di otto medici su dieci scelgono di affidarsi alle cure di colleghi che sono anche amici: segno di una comunità che resta coesa e che si aiuta reciprocamente. Allo stesso tempo, l’indagine evidenzia una diffusa diffidenza nei confronti degli ospedali (58%) da parte degli intervistati che, nella maggioranza dei casi (64%), fanno anche più domande della media dei pazienti quando si trovano ricoverati. 

(https://www.medscape.com/slideshow/it-2023-6016759?src=mkm_ret_221115_mscpmrk_it_globalcompensation&faf=1#7)