“Il cambiamento climatico è una crisi sanitaria”: la Commissione ONU lancia l’allarme

(da Univadis)    In una lettera aperta pubblicata il 13 agosto, la Commissione Pan-Europea su Clima e Salute – convocata dal ramo continentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – ha lanciato un grido d’allarme: gli eventi meteorologici estremi rappresentano una minaccia ormai vicina e vanno affrontati come una vera e propria emergenza sanitaria.

Gli effetti sulla popolazione e sul sistema sanitario

Gli effetti dei cambiamenti climatici sono drammaticamente concreti: ondate di calore sempre più intense, frequenti e letali. Solamente nel 2022 e 2023, nelle 35 nazioni europee coinvolte, si stimano oltre 100.000 decessi legati al caldo estremo, con un aumento del 30% della mortalità per calore negli ultimi vent’anni.  I decessi non appaiono sempre immediatamente attribuibili al caldo: spesso si tratta di infarti, ictus o insufficienza respiratoria. I gruppi più vulnerabili – anziani, persone con disabilità, chi vive in abitazioni inadatte, donne in gravidanza, bambini e chi lavora all’aperto – sono i più esposti.   In aggiunta all’eccesso di mortalità, gli effetti negativi si estendono alla salute mentale, alla produttività, all’agricoltura, ai costi energetici e alle infrastrutture sanitarie.  I sistemi sanitari e ospedalieri sono infatti soggetti a ulteriore stress: le emergenze si riversano sui reparti di Pronto soccorso, la salute mentale peggiora, l’efficienza cognitiva cala e persino l’infrastruttura informatica e di raffreddamento degli ospedali può arrivare al punto di rottura – come accadde durante la storica ondata di calore del 2022 in Inghilterra.

Le soluzioni ci sarebbero

“La buona notizia è che molte soluzioni per il clima sono anche soluzioni che proteggono e promuovono la salute. Prima di tutto, ridurre le emissioni significa aria più pulita e meno morti – potenzialmente salvando oltre 5 milioni di vite a livello globale grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico” scrivono gli esperti della Commissione Pan-Europea su Clima e Salute. “Espandere le aree verdi nelle città riduce l’esposizione al calore, migliora la salute mentale, abbassa le bollette energetiche e assorbe carbonio. Aumentare del 30% il verde urbano potrebbe ridurre le morti legate al caldo fino al 40%. Tutti questi sono vantaggi per la salute, l’equità e l’economia”.  Per invertire la tendenza, secondo il documento occorre ripensare i parametri oggi usati a livello internazionale per valutare ricchezza e prosperità: “Abbiamo bisogno di nuove misure di progresso che mettano salute, benessere, equità e sostenibilità al centro. Alcuni Paesi stanno già ridefinendo il successo includendo salute e clima nelle politiche economiche. Altri devono seguire, perché non possiamo esternalizzare la salute – né la nostra né quella del pianeta. Entrambe sono inestimabili. Ed entrambe sono in pericolo”.   La lettera è firmata da eminenti figure della politica, dell’ambientalismo e della sanità, fra cui la presidente della Commissione Katrín Jakobsdóttir, l’ex primo ministro dell’Islanda, Sir Andrew Haines, Sandrine Dixson‑Declève, e l’italiano Enrico Giovannini, ex ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. È la prima di una serie di iniziative annunciate per i prossimi mesi.

Dagli USA una posizione controcorrente

Questa presa di posizione arriva in un momento in cui dall’altra parte dell’Oceano Atlantico lo scontro tra la comunità scientifica e l’amministrazione Trump continua senza esclusione di colpi, dopo la pubblicazione da parte del Dipartimento dell’Energia (DoE) di un rapporto, stilato da un ristretto gruppo di ricercatori, secondo cui il riscaldamento globale sarebbe “meno dannoso economicamente di quanto si pensi comunemente”.   Secondo la rivista Nature, il rapporto punta a creare le condizioni per ribaltare una sentenza emessa nel 2007 dalla Corte Suprema secondo cui i gas serra rientrano nella categoria degli inquinanti atmosferici, che aprì la strada alla regolamentazione delle emissioni da parte dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA), avvenuta nel 2009.  “Questo piccolo rapporto è sostanzialmente concepito per sopprimere la scienza, non per sostenerla o stimolarla” ha detto a Nature Joellen Russell, oceanografa dell’Università dell’Arizona, tra gli scienziati che si sono mobilitati. Tra di loro anche il climatologo dell’Università di East Anglia Benjamin Santer, altrettanto critico: “Si tratta di una revisione della scienza e della storia. Dobbiamo reagire”.

(https://www.who.int/europe/publications/m/item/extreme-weather-events-in-the-european-region-are-a-health-emergency-not-just-a-climate-one)

Diabete, pressione alta e Hiv, uomini rischiano più delle donne

(da DottNet)   Gli uomini hanno maggiori probabilità rispetto alle donne di ammalarsi e morire a causa di tre condizioni, ipertensione, diabete e hiv, e minori probabilità di ricevere cure mediche. Lo rivela uno studio di Angela Chang dell’Università della Danimarca Meridionale, pubblicato sulla rivista PLOS Medicine. I ricercatori hanno raccolto dati sanitari globali relativi a persone per tre condizioni: ipertensione, diabete e Hiv/Aids. L’analisi ha identificato differenze significative tra i sessi in ogni fase del “percorso sanitario”, che comprende l’esposizione a un fattore di rischio, lo sviluppo della condizione, la diagnosi, il trattamento e la morte. Uomini e donne hanno ricevuto cure diverse per ipertensione, diabete e Hiv/Aids in 200, 39 e 76 paesi, rispettivamente.

Gli uomini presentano tassi di malattia e di mortalità più elevati rispetto alle donne e, in alcuni paesi, sono meno propensi a cercare assistenza sanitaria o ad aderire ai trattamenti. Nella maggior parte dei paesi, inoltre, gli uomini hanano una maggiore probabilità di fumare, mentre le donne tendono più spesso a essere obese e a praticare sesso non sicuro. La maggior parte di queste differenze non è spiegata solo dal sesso (biologia), ma da costruzioni sociali di genere – evidenziando l’importanza di adottare un approccio alla giustizia di genere per ridurre le disuguaglianze sanitarie, concludono gli esperti.

 

Etnia e colore della pelle influenzano la risposta alla vitamina D

(da Nutrienti e supplementi) La supplementazione di vitamina D è ampiamente diffusa, ma la comprensione del suo impatto clinico è ostacolata dalla variabilità individuale nella risposta. Recenti ricerche hanno evidenziato che l’etnia e il colore della pelle giocano un ruolo significativo in questa variabilità, suggerendo come un approccio “taglia unica” non sia efficace per tutti. Una revisione sistematica e meta-analisi, pubblicata di recente su ‘Nutrition reviews’, ha esplorato l’impatto dell’etnia sulla risposta alla supplementazione orale di vitamina D. I ricercatori hanno analizzato dati provenienti da 18 studi con 1.131 partecipanti, misurando i livelli ematici di 25(OH)D3.

I risultati hanno mostrato che l’etnia ha avuto un impatto significativo sui livelli sierici medi di 25(OH)D3 aggiustati per dose e Bmi rispetto al basale. In particolare, i partecipanti allo studio di etnia asiatica e bianca hanno dimostrato un aumento statisticamente più elevato dei livelli ematici di 25(OH)D3 (183 nmol/L e 173 nmol/L rispettivamente) rispetto ai partecipanti arabi e neri (37 nmol/L e 99 nmol/L).

Questi risultati sono stati ulteriormente supportati da un’analisi completa di 48 studi sulla supplementazione di vitamina D, che ha rivelato come il colore della pelle influenzi la quantità di vitamina D necessaria. La ricerca ha dimostrato che gli individui con tonalità di pelle più scure richiedono in genere circa il 30% in più di dosi di vitamina D₃ per raggiungere gli stessi aumenti nei livelli ematici di vitamina D rispetto a quelli con tonalità di pelle più chiare. Ciò implica che una dose standard potrebbe non essere sufficiente per tutti, in particolare per coloro che hanno più melanina nella pelle, lasciando potenzialmente molte persone con una carenza di vitamina D.

“L’impatto clinico di queste scoperte è considerevole, poiché sottolinea la necessità di adattare le raccomandazioni sulla vitamina D ai singoli pazienti, tenendo conto del loro background etnico e del colore della pelle”, sottolineano gli Autori. “Per i clinici, è fondamentale personalizzare i piani di supplementazione di vitamina D piuttosto che utilizzare un dosaggio uniforme. Si raccomanda di testare i livelli di vitamina D dei pazienti e di aggiustare la dose di conseguenza, prestando particolare attenzione agli individui con un contenuto più elevato di melanina nella pelle o a coloro che, per pratiche culturali, limitano l’esposizione al sole”.

(https://academic.oup.com/nutritionreviews/article-abstract/83/7/e1372/7829186?redirectedFrom=fulltext&login=false)

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