Mangiare troppo pollo amplia il rischio di tumori gastrointestinali

(da DottNet)  Secondo una nuova ricerca condotta dall’Irccs de Bellis di Castellana Grotte (Bari), anche il consumo moderato di carne di pollo potrebbe essere associato a un aumento del rischio di morte per tumori gastrointestinali. Lo studio, condotto su oltre 4.800 persone, ha rilevato che mangiare tra i 100 e i 200 grammi di pollo a settimana comporta un aumento del rischio pari al 35%. La percentuale sale al 100% se il consumo settimanale supera i 200 grammi. Il direttore scientifico dell’Istituto, Gianluigi Giannelli, ha spiegato che risultati della ricerca “sembrerebbero un po’ sfatare il mito della carne di pollo come scelta salutistica rispetto alla carne rossa”, precisando che “abbiamo anche dimostrato che la carne rossa aumenta il rischio di morte per tumori gastrointestinali del 23% soltanto se consumata oltre i 350 grammi la settimana”.

Il commissario straordinario dell’Irccs, Luigi Fruscio, ha sottolineato come l’istituto De Bellis abbia maturato negli anni una solida competenza nel campo della prevenzione, promuovendo la “dieta mediterranea come corretto stile di vita per combattere l’insorgenza di patologie croniche ed oncologiche”.

Le e-cig portano indietro di 50 anni le lancette della lotta al fumo

Le e-cig portano indietro di 50 anni le lancette della lotta al fumo

(da Univadis)    Le sigarette elettroniche rischiano di riportare indietro di mezzo secolo la lotta contro il fumo. Secondo uno studio longitudinale, pubblicato a fine luglio da ‘Tobacco Control’il rischio di fumare tabacco per i giovani che fumano e-cig è pari a quello dei loro coetanei di 50 anni fa.

Lungi dall’essere un’alternativa sicura, le e-cig non solo portano con sé rischi intrinseci per la salute, ma potrebbero anche normalizzare la pratica del fumo, portando i giovani verso le sigarette tradizionali.

L’ipotesi che queste possano aiutare a smettere di fumare è controversa, ma diversi studi mostrano che in realtà l’uso di sigarette elettroniche e tradizionali non è mutualmente esclusivo, anzi, e che è più facile passare dalle sigarette elettroniche a quelle tradizionali rispetto al contrario. Ha senso dunque chiedersi se le e-cig siano un fattore di rischio per il fumo tradizionale.

Dettagli e risultati dello studio

Lo studio ha attinto da tre coorti nazionali britanniche: il National Child Development Study (NCDS) che segue 11.969 individui nati nel 1958, il British Cohort Study (BCS) con 6.222 partecipanti nati nel 1970 e il Millennium Cohort Study (MCS) che include 9.733 giovani nati tra il 2000 e il 2002. I ricercatori hanno valutato la prevalenza dell’abitudine del fumo rispettivamente nel 1974, 1986 e 2018, quando i partecipanti di ciascuna coorte avevano 16-17 anni. I fattori di rischio includevano caratteristiche individuali come il consumo di alcol, l’impegno scolastico, le capacità verbali e i comportamenti esternalizzanti riportati dai genitori. A livello familiare, lo studio ha considerato l’occupazione paterna (categorizzata in disoccupato/assente, manuale/autonomo, o professionale/manageriale), l’età in cui la madre ha lasciato l’istruzione a tempo pieno, e l’uso di tabacco da parte dei genitori, incluso (separatamente) quello della madre durante la gravidanza. Nella coorte più recente è stato possibile tenere conto anche dell’uso di sigarette elettroniche (mai usate, uso passato/sperimentale o uso corrente).

Lo studio conferma che, in generale, la prevalenza del fumo di tabacco tra gli adolescenti si è ridotta di un terzo nel giro degli ultimi 50 anni: dal 33% del 1974 al 25% nel 1986, fino al 12% nel 2018. Molti fattori di rischio mantengono associazioni simili attraverso le generazioni: il consumo di alcol aumenta le probabilità di fumare di 2,87 volte nella coorte NCDS, 4,37 nella BCS e 3,15 nella MCS, per esempio. Ma la prevalenza dei fattori di rischio, in parallelo, spesso è calata: per esempio, la percentuale di giovani che avevano consumato alcol entro i 16-17 anni è scesa dal 94 all’83%; l’età media in cui le madri hanno lasciato l’istruzione è aumentata da 15,5 a 17,7 anni, mentre tra i genitori la prevalenza di fumatori è crollata dal 72 al 27%.

Nella coorte più recente, l’unica esposta da adolescente alle e-cig, l’11% dei giovani ne riferiva l’uso corrente, il 41% un uso passato o sperimentale, e il 48% non aveva mai svapato. Ma, mentre i giovani che non hanno mai svapato hanno una probabilità di fumare bassissima (1,4%), la probabilità per quelli che svapano correntemente raggiunge il 32,6%, valore paragonabile alla popolazione del 1974. In pratica, per chi non usa e-cig è estremamente improbabile diventare fumatore, mentre la popolazione che le usa ha un rischio pari a quello generale della popolazione di oltre cinquanta anni fa.

Cosa si può fare

Di per sé i dati non consentono di costruire una relazione causale. Le associazioni osservate potrebbero riflettere sia un effetto del vaping come introduzione al fumo, sia una propensione condivisa verso entrambi i comportamenti in sottogruppi ad alto rischio. È comunque legittimo sospettare, a livello precauzionale, che i successi ottenuti nella riduzione del fumo giovanile attraverso decenni di politiche di controllo del tabacco possano venire erosi dal diffondersi delle e-cig: “È possibile che giovani, storicamente considerati a basso rischio per il consumo di sigarette tradizionali diventino a rischio a causa della loro esposizione alla nicotina, sperimentando o utilizzando le sigarette elettroniche”, scrivono gli autori dello studio.

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) del 2024, in Italia un terzo degli adolescenti fuma o svapa; di questi oltre il 60% usa contemporaneamente più forme di prodotti contenenti nicotina, tra sigarette tradizionali, tabacco riscaldato o e-cig. L’uso di sigarette tradizionali è ancora ampio, sebbene in calo: nella fascia 15-16 anni, i dati ESPAD del 2024 mostrano una prevalenza del 23,6%. “Il marketing sempre più aggressivo nei confronti di questa fascia di età dei prodotti a base di nicotina, che passa da strumenti come il packaging e l’aspetto esteriore dei dispositivi sempre più accattivante all’ideazione di sapori fruttati più vicini al gusto dei giovani sta facendo sì che l’uso sia sempre più diffuso”, affermò all’epoca Simona Pichini del Centro nazionale dipendenze e doping dell’ISS. Negli ultimi anni il marketing del tabacco e delle e-cig riesce facilmente a raggiungere i giovani tramite i social media, come Instagram e sfrutta un’ampia rete di influencer.

Il quadro italiano presenta alcuni punti critici. Secondo i dati ESPAD, sebbene si fumi meno di venti anni fa, a 16 anni fuma comunque quasi il 15% dei sedicenni; oltre il 20% delle sedicenni, e il 40 per cento degli utilizzatori di e-cig ha iniziato sotto i 15 anni di età. Quasi il 20% degli studenti ha usato e-cig nell’ultimo mese: un dato in rapidissima ascesa (era il 7% nel 2018).

(https://tobaccocontrol.bmj.com/content/early/2025/07/23/tc-2024-059212)

Studio ISS, morbillo: quasi un italiano su 10 è a rischio infezione

(da DottNet)   Quasi un italiano su dieci – il 9,2% – non ha l’immunità al morbillo e potrebbe contrarre l’infezione se incontrasse il virus. La percentuale è più alta tra i giovani adulti tra 20 e 40 anni, che costituiscono un gruppo particolarmente a rischio e contribuiscono in maniera determinante alla diffusione dei contagi. Sono i dati che emergono da uno studio coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla Fondazione Bruno Kessler pubblicato dalla rivista The Lancet Infectious Diseases.    Lo studio ha analizzato i quasi 15 mila casi di morbillo (con 14 morti) che sono stati notificati al sistema nazionale di sorveglianza integrata morbillo e rosolia, tra il 2013 e il 2022. La fascia di età in cui l’incidenza dell’infezione è più alta è quella dei bambini sotto i 5 anni, ma oltre la metà dei casi ha riguardato giovani adulti, tra i 20 e i 39 anni.  Circa 9 infezioni su 10 hanno riguardato persone non vaccinate. Queste ultime, inoltre, sono anche responsabili dell’88,9% dei contagi secondari (cioè quelli che seguono il cosiddetto ‘caso indice’ nei focolai).

Un terzo degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Inoltre, il 35,5% dei contagi è avvenuto in ambito familiare.  L’analisi ha anche stimato la quota di italiani suscettibile al morbillo nel 2025: si tratta del 9,2% della popolazione generale, l’11,8% nella fascia con meno di 20 anni. Il dato però, ha una grande variabilità regionale, con il centro-nord che tende ad avere valori di immunità maggiori.   “Gli adulti non vaccinati contribuiscono in maniera sostanziale alla trasmissione del morbillo in Italia”, scrivono gli autori nelle conclusioni dello studio. “Esiste una grande eterogeneità regionale nell’immunità: alcune regioni mostrano basse coperture vaccinali nei bambini, mentre altre hanno una grande proporzione di adulti suscettibili. Questi risultati enfatizzano il bisogno di strategie vaccinali mirate, comprese campagne di recupero rivolte agli adulti”, concludono.

Ecco le conclusioni principali:

– La maggior parte (88,9%) delle infezioni secondarie (quelle che seguono il cosiddetto ‘caso indice’ nei focolai) è stata causata da individui non vaccinati. Solo l’1,1% delle infezioni sono avvenute tra persone entrambe vaccinate con almeno una dose.

– Un terzo (33,3%) degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Il 35,5% dei contagi secondari è avvenuto in ambito familiare.

– Nel 2025 il 9,2% della popolazione italiana è suscettibile al morbillo, e solo l’88,2% dei giovani sotto i 20 anni è immune. Il dato ha una grande variabilità regionale: per quanto riguarda la popolazione generale, le regioni del centro-nord registrano le percentuali più alte di suscettibili, mentre tra i giovani sotto i 20 anni la provincia di Bolzano e la Calabria risultano essere quelle con più soggetti suscettibili.

– Nonostante alcune regioni abbiano raggiunto alti tassi di vaccinazione nei bambini, grazie alla legge sull’obbligo introdotta nel 2017, l’analisi indica che non necessariamente questo si traduce in un minor rischio di trasmissione, soprattutto per la presenza di ampie sacche di adulti non immunizzati.

– Il numero di riproduzione stimato per il 2025 varia da 1,31 a 1,78 in tutte le regioni, in linea con la trasmissibilità stimata nei focolai del decennio precedente.

Mappatura dei nei, Fimmg e dermatologi a confronto sul ruolo dei medici di famiglia

(da Doctor33)   La vicenda della mappatura dei nei è esplosa in Veneto dopo che alcune Ulss hanno chiarito che l’esame non è più prescrivibile come prestazione autonoma a carico del Servizio sanitario nazionale. Dal 2025, infatti, la nuova lista dei Lea prevede che la mappatura possa avvenire solo nell’ambito di una prima visita dermatologica, con ticket fissato a 25,40 euro. Per controlli preventivi sistematici, invece, i cittadini dovranno rivolgersi al privato.

Nei giorni scorsi il segretario generale della Fimmg, Silvestro Scotti, in un’intervista a ilfattoquotidiano.it ha chiarito che «il nuovo nomenclatore non ha eliminato la mappatura, ma l’ha inclusa nella prima visita dermatologica, migliorando appropriatezza e costi». Secondo Scotti, tuttavia, lo screening preventivo dei nei resta un punto debole del sistema: «Dire che non sia efficace è sbagliato. È uno strumento importante per la diagnosi precoce del melanoma». Da qui la proposta di utilizzare i fondi già stanziati con la manovra 2020 per dotare gli studi di medicina generale di dermatoscopi, così da consentire ai medici di base di effettuare un primo livello di valutazione e alleggerire le liste d’attesa.

Una prospettiva che trova però la netta contrarietà delle società scientifiche di dermatologia. «La prevenzione oncologica dermatologica non è un atto burocratico, ma una valutazione clinica complessa che richiede esperienza specialistica», ha affermato Davide Melandri, presidente di Adoi. «La mappatura dei nei non è una semplice fotografia ma un’analisi che integra anamnesi, valutazione clinica e riconoscimento delle lesioni sospette», ha aggiunto Domenico Piccolo, presidente di Aida. Preoccupazioni sono state espresse anche da Viviana Schiavone, vicepresidente Aida («non si possono ridurre le liste d’attesa spostando competenze specialistiche su figure non formate»), e da Cesare Massone, vicepresidente Adoi, che ha richiamato i rischi medico-legali di diagnosi errate.

Alle critiche Scotti ha replicato con un comunicato: «Nessuno screening di massa, ma aumento della capacità del primo livello di cure, integrato con i dermatologi per migliorare la prevenzione». Il segretario Fimmg ha ricordato il progetto avviato nel 2020 insieme all’Università Federico II di Napoli, che già allora dimostrò la validità di un modello di collaborazione tra medici di base e specialisti. «Con telemedicina e intelligenza artificiale i benefici sono ancora più evidenti. È il momento di usare i 235 milioni di euro stanziati per la diagnostica di primo livello e rimasti fermi nelle casse regionali», ha concluso.

1 3 4 5 6 7 251