Il 9 ottobre porte aperte in 17 ospedali storici d’Italia

(da Adnkronos Salute) Gli antichi ospedali d’Italia aprono le porte al grande pubblico per farsi ammirare. Le strutture presenti in 12 città, da Venezia a Napoli, da Firenze a Milano, da Brescia a Roma, il 9 ottobre saranno visitabili grazie al progetto dell’Associazione culturale ospedali storici italiani (Acosi), che riunisce gli antichi ospedali dove tuttora si svolge attività sanitaria. L’associazione presenterà venerdì a Firenze alla Fondazione Santa Maria Nuova, in piazza Santa Maria Nuova a Firenze, il programma che prevede visite guidate, itinerari riservati, convegni, concerti e pubblicazioni.

Nell’occasione, oltre alle attività che saranno organizzate durante tutta la giornata del 9 ottobre, con la programmazione di visite guidate su itinerari riservati in 17 siti ospedalieri storici, saranno presentati in anteprima il volume ‘Lo splendore della cura. Viaggio negli ospedali storici italiani’ e il primo Calendario 2023 di Acosi. Sarà inoltre presentato il programma di concerti che saranno eseguiti nel corso del 9 ottobre, grazie al progetto dell’Accademia nazionale Santa Cecilia di Roma realizzato con un finanziamento del ministero della Cultura. La presidenza dell’Acosi, infine, annuncerà l’importante protocollo d’intesa sottoscritto recentemente tra l’associazione, il ministero della Cultura e il ministero della Salute.

A Firenze saranno presenti il presidente di Acosi, Edgardo Contato, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Venezia; Paolo Marchese Morello, direttore generale Usl Toscana Centro, Firenze; Angelo Tanese, vicepresidente Acosi e direttore generale Asl Roma 1; Giancarlo Landini, presidente Fondazione Santa Maria Nuova, Firenze; Gennaro Rispoli, presidente de Il Faro di Ippocrate Museo Arti sanitarie Ospedale degli Incurabili; Giancarlo Giacchetti, presidente Fondazione Irccs Ca’ Granda ospedale Maggiore Policlinico di Milano con Paolo Galimberti, consigliere Acosi; Mario Po’, direttore del Polo culturale e museale della Scuola Grande di San Marco di Venezia.

È ora di stanziare l’8% del Pil per la sanità pubblica

da Fimmg.org e IlSole24Ore)   Assente. Nel dibattito politico preelettorale, la sanità sembra scomparsa. Come se la lezione imparata in due anni di pandemia fosse stata archiviata. Occorre, invece, ribadire la centralità delle politiche sanitarie pubbliche per il Paese e, in una logica di assunzione piena di responsabilità per il ruolo che la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) riveste, vogliamo cominciare a proporre qualche elemento di riflessione, partendo da tre cose da fare nella prossima legislatura.

Le fasi più dure della pandemia sono state per l’opinione pubblica l’occasione per scoprire gli effetti di anni di definanziamento del Ssn. L’Italia si è mantenuta, in termini di risorse destinate alla sanità, stabilmente al di sotto di molti altri Paesi europei. La copertura pubblica della spesa sanitaria attualmente è ancora elevata (73,9%) ma ha registrato nel corso del decennio 2010-2019 una riduzione significativa (- 4,5%). Nonostante nella Nadef 2021 si annunci che con la prossima legge di Bilancio sarà rafforzato il sistema sanitario nazionale e che «risorse aggiuntive saranno destinate ai rinnovi dei contratti pubblici», le previsioni sull’andamento della spesa sanitaria rispetto al Pil per i prossimi anni, contenuti nello stesso documento, non lasciano spazio all’ottimismo. Si prevede che a legislazione vigente la spesa sanitaria scenda al 6,7% nel 2022, al 6,3% nel 2023, al 6,1% nel 2024, tornando a percentuali pre-pandemia.

Che il Paese tenda a dimenticare in fretta quanto è stato condiviso in editoriali, indagini sui magazine, talk televisivi, prese di posizione in Parlamento e che nei giorni della santificazione dell’eroismo di medici e infermieri sembrava un punto di non ritorno, non stupisce. Ma non è detto che ci si debba rassegnare. La strada è attestare il nostro Paese su uno stanziamento dell’8% del Pil dedicato al Fondo sanitario nazionale. Si tratta di un valore superiore al 7,3% del 2021 e al 7,5% del 2020, ma che terrebbe conto di situazioni congiunturali alle quali il Ssn dovrà fare fronte, come i rincari del costo della energia, delle tante questioni ancora in sospeso, come per esempio la stabilizzazione del personale, per le quali saranno necessari ulteriori fondi.

Una spesa sanitaria attestata sul valore dell’8% del Pil, inoltre, ci riporterebbe in linea con la media dei Paesi europei più avanzati e significherebbe per i cittadini più personale e meno liste d’attesa.

È arrivato il momento di lasciarsi definitivamente alle spalle la stagione dei blocchi e dei tetti di spesa, puntando con determinazione su investimenti, programmazione e formazione per ridisegnare servizi, ripensare profili e mix di competenze professionali, riallocare risorse e allineare il Ssn ai bisogni di salute, utilizzando al meglio la spinta della innovazione tecnologica ed organizzativa. Nel decennio successivo all’avvio della crisi finanziaria del 2008, le Aziende sanitarie hanno potuto contare su finanziamenti ridotti, disponendo di risorse tra le più basse tra i Paesi occidentali avanzati. Eppure sono riuscite ad affrontare quella congiuntura lunga e impegnativa senza mettere in discussione i livelli essenziali di assistenza. Tuttavia, in quel decennio si è accumulato di fatto tutto il deficit di personale, quasi 40mila unità in meno.

A partire dagli effetti dei provvedimenti della legge di bilancio 2010, con il tetto alla spesa del personale ancorato al costo del 2004 (-1,4% ogni anno) e il blocco del turnover che hanno pesato non poco sul quadro odierno.

Quelle misure hanno consentito di ottenere più agevolmente il contenimento della spesa, ma sono state tra le cause dell’incremento dell’età media del personale, per cui più della metà dei medici del Ssn ha oggi più di 55 anni, la percentuale più elevata d’Europa, superiore di oltre 16 punti alla media Ocse. Il tetto di spesa sul personale mal si concilia con la necessità di tornare a programmare di quali e quante unità di personale, così come di quali profili professionali ci sia necessità per garantire i servizi sanitari a breve, medio e lungo termine.

L’eliminazione del tetto sul personale consentirebbe alle Aziende di poter programmare senza i vincoli dell’ultimo decennio, guardando come riferimento prioritario alle necessità dei servizi per rispondere ai bisogni di cura e di assistenza dei cittadini.

In attesa di una riforma strutturale che consenta il superamento dei tetti di spesa, occorre fronteggiare l’emergenza dovuta alla carenza di personale che manda in crisi soprattutto gli ospedali di provincia e apre a svariate iniziative di reclutamento. Si consenta, con un provvedimento legislativo straordinario per un periodo di tempo di 24-36 mesi, l’assunzione dei laureati in medicina abilitati all’esercizio della professione e anche degli specializzandi durante il loro percorso formativo con contratti libero-professionali. Si tratta di una soluzione temporanea, necessaria per tamponare le carenze di organico, nell’attesa che l’incremento delle borse di studio per le specializzazioni mediche produca i suoi effetti tra 4-5 anni.

Covid-19, variante Centaurus a confronto con Omicron 5 su contagio e pericolosità. Ecco le differenze

(da Doctor33)   La variante del Sars-Cov-2 detta Centaurus, non è più resistente agli anticorpi rispetto alla variante omicron 5 attualmente dominante, “il che è una notizia positiva”. Lo evidenzia uno studio pubblicato sulla rivista ‘The Lancet Infectious Diseases’, che ha caratterizzato la nuova variante di omicron BA.2.75, confrontando la sua capacità di eludere gli anticorpi contro le varianti attuali e precedenti.
Nel maggio 2022 è stata rilevata una nuova variante di omicron, BA.2.75, che sta guidando un’ondata di infezioni in India e si è diffusa a livello internazionale. Nelle ultime settimane la variante BA.2.75 è stata rilevata anche in Svezia.
“Identificare quanto sia vulnerabile la popolazione, in questo momento, alle varianti emergenti è fondamentale”, afferma Daniel Sheward, ricercatore presso il Dipartimento di microbiologia, biologia dei tumori e delle cellule, Karolinska Institutet, e primo autore dello studio. “Producendo uno pseudovirus per BA.2.75, – aggiunge – siamo stati in grado di testarne la sensibilità agli anticorpi presenti nei donatori di sangue”.
I test sono stati effettuati utilizzando 40 campioni di sangue prelevati a caso a Stoccolma, sia prima che dopo la prima ondata da omicron. “Il nostro studio mostra che omicron BA.2.75 ha approssimativamente lo stesso livello di resistenza agli anticorpi della variante dominante BA.5, il che è una notizia rassicurante, qualora dovessimo subire un’onda BA.2.75 in Svezia”, afferma Ben Murrell, assistente professore presso il Dipartimento di microbiologia, del Karolinska Institutet, e autore senior dello studio. I ricercatori hanno anche studiato se gli anticorpi monoclonali antivirali, che sono usati clinicamente per trattare pazienti già infetti, perdono il loro effetto contro omicron BA.2.75, rispetto a BA.5. Anche qui i ricercatori non hanno riscontrato differenze allarmanti.

Gli endocrinologi contro ipotesi ora legale tutto l’anno: “20% in più rischio diabete e obesità”

Secondo i dati dell’American Time Use Survey spostando le lancette in avanti di un’ora per tutti i 12 mesi, può determinare ripercussioni sulla salute anche negative: comporterebbe un ‘taglio’ alle ore di sonno di 115 ore in meno all’anno, con un maggior rischio di obesità, sovrappeso e patologie metaboliche come il diabete. Colao (Sie): “Ulteriori studi aiuteranno a comprendere se sia meglio per la salute scegliere l’ora solare o quella legale”  Leggi L’articolo completo al LINK

Abolire il numero chiuso a Medicina?

(da Univadis – Roberta Villa)   Se per un qualunque problema si intravede una possibile soluzione che sembra a prima vista a costo zero, spesso la politica non perde tempo e la adotta senza preoccuparsi se e quanto efficace possa essere, e nemmeno se e quanti finanziamenti di fatto richieda, al di là delle apparenze.   È il caso dell’abolizione del numero chiuso per entrare a Medicina, vista come una risposta facile ed economica alla carenza di medici, di cui abbiamo ripetutamente parlato in questa rubrica: da un lato quelli di famiglia, che vanno in pensione a frotte senza che vi sia un possibile ricambio, per cui larghe aree del Paese stanno rimanendo, o sono già rimaste, private dell’assistenza sanitaria di base; dall’altro gli anestesisti e rianimatori, i medici di pronto soccorso e tutti quelli assegnati alle varie funzioni dell’emergenza e urgenza, che dopo i salti mortali fatti durante la pandemia, privi di riconoscimento sociale ed economico, messi a fronteggiare con turni insostenibili la marea montante che viene dal territorio rimasto sguarnito, appena possono abbandonano il campo, per cercare una diversa collocazione.

Detto questo, è proprio vero che in Italia mancano medici? Come al solito, è bene partire dai dati: e questi, in particolare quelli di Eurostat (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Health_statistics_at_regional_level#Health_care_personnel_and_health_care_facilities),ci dicono che non è proprio così. Nel 2019 ne avevamo 405 ogni 100.000 abitanti, già in aumento rispetto ai 395 del 2016, e comunque sopra la media europea, che è di circa 390 ogni 100.000 abitanti. Il record è della Grecia, con 616, ma anche Portogallo e Austria ne hanno più di 500. Tra i grandi Paesi dell’Europa occidentale, poco sopra di noi ci sono Spagna e Germania, intorno ai 440, ma la Francia e il Belgio, al contrario, sono parecchio al di sotto. E come fanno? Difficile rispondere in poche righe, ma la prima ipotesi a cui si può pensare è che la loro organizzazione del lavoro sia più efficiente. Che ai medici siano risparmiati i compiti burocratici, che possono essere svolti da personale amministrativo; che un maggior numero di infermieri specializzati e pagati adeguatamente possa svolgere una serie di attività che in Italia sono ancora appannaggio del medico. Sul territorio la medicina di gruppo aiuta molto a ottimizzare questo genere di risorse, e forse anche negli ospedali si potrebbero studiare modelli più funzionali.

Ma il vero ostacolo, la barriera che impedisce a tanti giovani e meno giovani colleghi di accedere al mondo del lavoro e a uscire dal precariato è quella della scuola di specializzazione, condizione quasi indispensabile per poter esercitare.   Non sono i medici che mancano, ma gli specialisti, e in particolare alcuni specialisti, come appunto anestesisti rianimatori o medici di pronto soccorso. Eppure i concorsi per queste figure professionali spesso vanno a vuoto. Qualcuno che si chiede perché? A questi medici si chiede molto di più, in termini di impegno, di fatica, di stress, senza una sufficiente differenza di trattamento economico e di altro tipo rispetto ad altri colleghi che possono conciliare molto più facilmente lavoro e vita privata. È abbastanza comprensibile che non ci sia la coda. Forse occorrerebbero maggiori incentivi, e magari, anche qui, potrebbero essere più logistici che esclusivamente economici.

Sappiamo che ci sono stati anche errori di programmazione in passato ma oggi che sappiamo di cosa abbiamo bisogno, si fa di meglio? Per l’accesso alle scuole di specialità non basta una norma, ma ci vogliono i fondi per pagare le borse di studio. Anche spalancare gli accessi al primo anno, bisognerebbe far sapere ai politici, richiederebbero docenti, aule, strutture in più. Ma soprattutto, visto che l’imbuto è a valle, significa aumentare il numero di coloro che tra un po’, dopo sei anni di sacrifici, si ritroveranno a combattere per entrare in specialità. Già molti ragazzi lamentano il clima di competizione che si vive in facoltà. Più saranno, più questo peggiorerà. E, col sistema della classifica nazionale, sempre di più finiranno a doversi accontentare di una strada che non fa per loro, aumentando così anche le probabilità che diventino professionisti peggiori di quelli che potrebbero essere.

Ambiente, l’inquinamento può provocare infarto anche a coronarie sane.

(da Doctor33)   L’aria inquinata può causare infarto anche a chi ha coronarie ‘pulite’, cioè senza aterosclerosi significativa, determinando uno spasmo prolungato dei vasi. È quanto dimostra, per la prima volta, uno studio firmato da Rocco Antonio Montone e da Filippo Crea, cardiologi della Fondazione Policlinico Agostino Gemelli Irccs-Università Cattolica, campus di Roma appena presentato al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) a Barcellona e pubblicato in contemporanea su JACC, rivista ufficiale dei cardiologi americani (American College of Cardiology). «Questo studio dimostra per la prima volta – dichiara Montone, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Terapia intensiva cardiologica del Gemelli Irccs – un’associazione tra esposizione di lunga durata all’aria inquinata e comparsa di disturbi vasomotori delle coronarie, suggerendo così un possibile ruolo dell’inquinamento sulla comparsa di infarti a coronarie sane; in particolare, l’inquinamento da particolato fine (Pm2.5) nel nostro studio è risultato correlato allo spasmo delle grandi arterie coronariche».
«Abbiamo studiato il fenomeno – spiega Montone, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Terapia intensiva cardiologica del Gemelli Irccs – su 287 pazienti di entrambi i sessi di età media 62 anni; il 56% di loro era affetto da ischemia miocardica cronica in presenza di coronarie ‘sane’ (i cosiddetti Inoca), mentre il 44% aveva addirittura avuto un infarto a coronarie sane (Minoca). La loro esposizione all’aria inquinata è stata determinata in base all’indirizzo di domicilio. Tutti sono stati sottoposti a coronarografia, nel corso della quale è stato effettuato un test ‘provocativo’ all’acetilcolina. Il test è risultato positivo (cioè l’acetilcolina ha provocato uno spasmo delle coronarie) nel 61% dei pazienti; la positività del test è risultata molto più frequente tra i soggetti esposti all’aria inquinata, in particolare se anche fumatori e dislipidemici». «Gli spasmi dei vasi del cuore – spiega Massimiliano Camilli, dottorando di ricerca all’Istituto di Cardiologia dell’università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma – potrebbero essere dovuti al fatto che l’esposizione di lunga durata all’aria inquinata determina uno stato di infiammazione cronica dei vasi, con conseguente disfunzione dell’endotelio, lo strato di rivestimento della parete interna dei vasi».
«Alla luce dei risultati di questo lavoro – ha concluso Crea, ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica, campus di Roma e direttore dell’Uoc di Cardiologia del policlinico Gemelli – limitare l’esposizione all’inquinamento ambientale, possibilmente riducendone le emissioni, potrebbe ridurre il rischio residuo di futuri eventi cardiovascolari correlati alla cardiopatia ischemica, sia su base aterosclerotica, che da spasmo delle coronarie». Crea raccomanda, dunque, l’utilizzo «di purificatori di aria in casa e l’utilizzo delle mascherine facciali quando ci si trova immersi nel traffico delle grandi città – continua l’esperto – potrebbe dunque già essere consigliato ai soggetti a rischio, in attesa di studi che ne valutino il reale impatto sulla riduzione del rischio. E naturalmente ribadiamo il divieto di fumo e la necessità di uno stretto controllo dei fattori di rischio per tutti, ma ancora di più a chi è esposto all’inquinamento, come chi vive in una grande città».

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