Covid: da Garante privacy linee guida per vaccinazione in luoghi di lavoro. Dovrà essere assicurato rispetto competenze tra il medico competente e il datore di lavoro

(da AdnKronos)   Il Garante per la privacy ha adottato un documento di indirizzo sulla vaccinazione nei luoghi di lavoro, per fornire indicazioni generali sul trattamento dei dati personali, in attesa di un definitivo assetto regolatorio. “La realizzazione dei piani vaccinali – si legge nella nota – per l’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti Covid-19 nei luoghi di lavoro, prevista dal protocollo nazionale del 6 aprile 2021, costituisce un’iniziativa di sanità pubblica, ragione per la quale la responsabilità generale e la supervisione dell’intero processo rimangono in capo al Servizio sanitario regionale e dovrà essere attuata nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati”. “Anche per la vaccinazione sul luogo di lavoro – prosegue il Garante -dovrà essere assicurato il rispetto del tradizionale riparto di competenze tra il medico competente e il datore di lavoro, messo in evidenza nel documento sul ruolo del medico competente in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, da oggi disponibile sul sito dell’Autorità”. Nel documento di indirizzo il Garante precisa che2 le principali attività di trattamento dati – dalla raccolta delle adesioni, alla somministrazione, alla registrazione nei sistemi regionali dell’avvenuta vaccinazione- devono essere effettuate dal medico competente o da altro personale sanitario appositamente individuato”.    Nel quadro delle norme a tutela della dignità e della libertà degli interessati sui luoghi di lavoro, infatti, non è consentito al datore di lavoro raccogliere direttamente dai dipendenti, dal medico competente, o da altri professionisti sanitari o strutture sanitarie, informazioni relative all’intenzione del lavoratore di aderire alla campagna o alla avvenuta somministrazione (o meno) del vaccino e ad altri dati relativi alle sue condizioni di salute. Tenuto conto dello squilibrio del rapporto tra datore di lavoratore e dipendente, il consenso del lavoratore non può costituire in questi casi un valido presupposto per trattare i dati sulla vaccinazione così come non è consentito far derivare alcuna conseguenza, né positiva né negativa, dall’adesione o meno alla campagna vaccinale.

Efficacia del 95% dei vaccini contro il Covid-19 con punte del 100% già con la prima dose di AstraZeneca.

Il primo studio Italiano sui dati real-world condotto dall’Università di Ferrara  Lo studio conferma l’elevata efficacia (del 95% circa) dei vaccini contro il Covid-19. Tutti i vaccini si sono rivelati molto efficaci, anche contro la variante inglese. Gli autori riportano il 95% di contagi in meno, 99% di malati con sintomi in meno tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati. Il vaccino AstraZeneca sembra avere un’efficacia che sfiora il 100%, anche dopo una singola dose.  Leggi L’articolo completo al LINK

http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=95553&fr=n

Una singola dose di vaccino dimezza il rischio di trasmissione

(da DottNet)   Una singola dose del vaccino COVID-19 prodotta da Pfizer o AstraZeneca riduce il rischio di una persona di trasmettere SARS-CoV-2 ai loro contatti più stretti di ben la metà, secondo un’analisi di oltre 365.000 famiglie nel Regno Unito.    Sebbene i vaccini abbiano dimostrato di ridurre i sintomi del COVID-19 e le malattie gravi, la loro capacità di prevenire la trasmissione del coronavirus non è stata chiara. Kevin Dunbar, Gavin Dabrera ei loro colleghi della Public Health England a Londra hanno cercato casi in cui qualcuno è stato infettato da SARS-CoV-2 dopo aver ricevuto una dose di uno dei due vaccini. Hanno quindi valutato la frequenza con cui quegli individui hanno trasmesso il virus ai contatti familiari.   Il team ha scoperto che le persone che erano state vaccinate per almeno 21 giorni potevano ancora risultare positive al virus. Ma la trasmissione virale da questi individui ad altri nelle loro famiglie era del 40-50% inferiore rispetto alla trasmissione nelle famiglie in cui la prima persona che risultava positiva al test non era stata vaccinata. I risultati per i due vaccini erano simili. I risultati non sono ancora stati sottoposti a peer review.

Enpam: via al bando 2021 per i mutui prima casa

(da enpam.it)   L’Enpam ha dato il via libera al nuovo bando dell’anno 2021 per la concessione di mutui ipotecari ai propri iscritti. La Fondazione intende in questo modo sostenere i giovani medici e odontoiatri interessati all’acquisto o alla ristrutturazione di una prima casa oppure di un’unità immobiliare da adibire a studio professionale. Il mutuo può essere chiesto anche dagli iscritti riuniti in associazione o in società di professionisti, purché tutti i componenti abbiano i requisiti previsto dal bando.

LA GARANZIA DI ESSERE MEDICO   L’ammissione alla richiesta di mutuo è riservata agli iscritti e ai medici in formazione (specializzandi e corsisti di Medicina generale) con un’età non superiore ai 40 anni. L’obiettivo principale dell’Enpam infatti è quello di favorire tutti quei soggetti che, al momento, non verrebbero considerati idonei alla concessione di un mutuo da parte del sistema bancario.  “In questo senso – ha commentato con soddisfazione il presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti – prosegue il nostro impegno nel dare sostegno ai giovani professionisti per avviare un percorso personale o professionale in tempi rapidi e con garanzie minime”.

QUANTO SI POTRA’ CHIEDERE     Agli iscritti la cui richiesta di mutuo sarà accetta si applicherà un tasso di interesse pari a 1,7 per cento annuo, comprensivo di tutte le spese.   Sarà possibile chiedere fino a 300mila euro, cifra che potrà servire a finanziare l’acquisto, la costruzione o la ristrutturazione dell’immobile fino all’80 per cento del valore.  Per la ristrutturazione il limite massimo è fissato invece in 150mila euro.   Da notare che l’immobile deve trovarsi nel Comune dove si risiede o si svolge l’attività lavorativa principale e non deve appartenere alle categorie residenziali di lusso. 

REQUISITI    Potranno presentare domanda di mutuo tutti i medici e gli odontoiatri che non hanno già finanziamenti o mutui pagati dalla Fondazione, che sono in regola con i versamenti, e non presentano una rateizzazione da regime sanzionatorio in corso.  Inoltre, è richiesto almeno un anno d’iscrizione e di contribuzione effettiva.   Tra le altre condizioni da rispettare, non si dovrà aver ottenuto l’assegnazione o la locazione con patto di futura vendita e riscatto di un altro alloggio e non si dovrà essere proprietari di un altro immobile nel Comune dove si risiede o dove si svolge l’attività lavorativa principale.

Ministero, nessuna controindicazione per il richiamo con AstraZeneca

(da DottNet)   I soggetti che hanno ricevuto la prima dose del vaccino AstraZeneca senza sviluppare eventi di trombosi rare “non presentano controindicazione per una seconda somministrazione del medesimo tipo di vaccino”. Così il parere del Cts trasmesso con una nuova circolare del ministero della Salute. Le trombosi rare risultano infatti essersi verificate solo dopo la prima dose. Tale posizione, afferma il Cts, “potrà essere eventualmente rivista se dovessero emergere evidenze diverse nelle settimane prossime derivanti in particolare dall’analisi del profilo di sicurezza del vaccino nei soggetti che in UK hanno ricevuto la 2/a dose”.  La circolare, firmata dal direttore della Prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza, trasmette il parere del Cts relativo al 30 aprile. Nel parere, il Cts spiega che “sulla scorta delle informazioni a oggi disponibili sull’insorgenza di trombosi in sedi inusuali (trombosi dei seni venosi cerebrali, trombosi splancniche, trombosi arteriose) associate a piastrinopenia, riportate essersi verificate solamente dopo la prima dose del vaccino di AstraZeneca, i soggetti che hanno ricevuto la prima dose di questo vaccino senza sviluppare questa tipologia di eventi, non presentano controindicazione per una seconda somministrazione del medesimo tipo di vaccino”. 

Per la medicina del territorio non servono cattedrali nel deserto

(da M.D.Digital)  Sulle Case di Comunità il commento del segretario nazionale della Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti (affiliata Cisl Medici), Francesco Esposito è molto critico: “È difficile comprendere come le ipotesi di riforma contenute nel punto 6 del Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza si possano poi concretizzare davvero, a partire dalle annunciate 1.288 Case di Comunità. Cosa sono e chi dovrebbe operare in queste strutture? Come si interfacciano con le leggi vigenti, a partire dalla Balduzzi, ma soprattutto con la capillare offerta di cure primarie, che si dice di voler potenziare, cioè con gli ambulatori di medicina generale e con le già esistenti (e funzionanti con successo) medicine di gruppo, come le Unità di cure Primarie? Non si capisce. Nel frattempo girano indiscrezioni sul cambio di stato contrattuale di oltre 60mila medici di famiglia (tutti dipendenti ?!? Ora sono convenzionati para-subordinati), che sembrano però, al momento, solo fake news. Insomma, la confusione regna sovrana: e con l’incertezza le preoccupazioni aumentano e la categoria lavora in prima linea, in una emergenza sanitaria, con uno stato d’animo pessimo”.   “In questi anni – continua – abbiamo assistito a un ‘festival’ di formule e slogan sul potenziamento delle cure primarie, sul territorio, ma abbiamo visto ben poco. Le ‘case della salute’, quasi sempre, o sono rimaste gusci vuoti o addirittura non sono neppure state avviate. Le Unità di cure primarie in molte realtà funzionano e meriterebbero più risorse e più personale, ma ora non sappiamo che fine faranno. Poco si dice del rapporto fiduciario medico-paziente e della capillarità degli ambulatori ora esistenti in tutto il Paese e che meritano di essere potenziati e (devono essere) modernizzati, mantenendo quella prossimità per i cittadini che non sappiamo come dovrebbe essere garantita dalle future Case di Comunità”.

“La nostra proposta sul Recovery,  – sottolinea Esposito – già presentata anche in audizione in Commissione parlamentare, è semplice: ospedali di eccellenza (si va in ospedale solo per casi gravi) e più territorio, più strutture intermedie con diagnostica e socio-assistenziale (per fragili e cronici), più medici e più personale, zero precariato, fascicolo elettronico e telemedicina, continuità assistenziale h24, medicina capillare, domiciliare e di prossimità, piano straordinario di edilizia sanitaria, riorganizzazione del 118 per una rete nazionale dell’emergenza-urgenza. E sul piano normativo: contratto unico, ruolo e accesso unico per i medici; ma anche riforma della formazione specifica e della specializzazione. Con queste direttrici e premesse si può ripartire. Altrimenti le case della Comunità saranno delle cattedrali nel deserto e si andrà ad un ennesimo fallimento a un’ulteriore occasione persa per modernizzare il territorio”.   “Ora basta – conclude – serve chiarezza, lo chiediamo al ministro Speranza, riunisca i sindacati del settore, decliniamo e riempiamo di contenuti il Recovery plan, diamo gambe e futuro agli stanziamenti previsti, per una nuova sanità pubblica dei cittadini e dei medici”.

La fibrillazione atriale provoca declino cognitivo e demenza

(da DottNet)    La fibrillazione atriale, la più comune tra le aritmie cardiache, causa declino cognitivo e demenza, anche in assenza di eventi clinici evidenti, come il classico ictus cerebrale. E’ il risultato a cui sono giunti i ricercatori della Città della Salute e dal Politecnico di Torino sulla base di quanto emerso  in studio appena pubblicato su Europace.
La ricerca è stata condotta da un gruppo multidisciplinare composto da cardiologi e ricercatori dell’ospedale Molinette della Città della Salute e dell’Università di Torino – professor Matteo Anselmino, dottor Andrea Saglietto, dottoressa Daniela Canova – e da un team di ingegneri del Politecnico di Torino – professor Luca Ridolfi e professoressa Stefania Scarsoglio. Tale ricerca ha permesso di studiare per la prima volta nell’uomo gli effetti esercitati dalla fibrillazione atriale sul flusso sanguigno nei piccoli vasi cerebrali. Mediante l’utilizzo di una metodica nota come spettroscopia quasi infrarossa (NIRS), infatti, piccole sonde applicate sulla cute della fronte del paziente consentono di ottenere informazioni sul flusso sanguigno a livello del cervello. Gli studi sono stati svolti su circa 50 pazienti con fibrillazione atriale afferenti alla Cardiologia universitaria dell’ospedale Molinette (diretta dal professor Gaetano Maria De Ferrari) ed hanno permesso di dimostrare come in corso di aritmia si generino transitorie ma ripetute alterazioni del flusso a livello del microcircolo cerebrale. “Crediamo che queste transitorie riduzioni critiche dell’afflusso di sangue al cervello contribuiscano a lungo termine alla genesi della  demenza e più in generale al deficit cognitivo associato alla fibrillazione atriale”, spiega in una nota il professor De Ferrari.
E’ importante evidenziare come le alterazioni della circolazione cerebrale registrate dalla NIRS in corso di fibrillazione atriale tendano a scomparire al ripristino del normale ritmo cardiaco tramite una cardioversione elettrica. “Oggi noi possiamo offrire ai pazienti con fibrillazione atriale una tecnica molto efficace nel mantenere il ritmo sinusale a lungo termine, come l’ablazione transcatetere – afferma il professor Anselmino – ed abbiamo pertanto in programma di valutare se con questo approccio sia possibile ridurre il declino cognitivo in questa popolazione di pazienti.
Per i ricercatori, “considerando che la fibrillazione atriale aumenta con l’aumentare dell’età e ci si attende un raddoppio dei casi di fibrillazione atriale entro il 2050, è evidente quanto sia stato importante capire i meccanismi che legano la fibrillazione atriale alla demenza, al fine di poter ottimizzare le strategie terapeutiche e minimizzare il deficit cognitivo correlato all’aritmia, con enormi potenziali ricadute sulla qualità della vita e la gestione dell’assistenza socio-sanitaria dei pazienti”.
 

Casi di diabete dopo aver contratto il Covid

(DottNet)    Scienziati di tutto il mondo hanno notato un aumento nei nuovi casi di diabete lo scorso anno e, in particolare, hanno visto che alcuni pazienti COVID-19 senza storia di diabete stavano improvvisamente sviluppando la condizione, ha riferito Scientific American . La tendenza ha spinto molti gruppi di ricerca ad avviare studi sul fenomeno; ad esempio, i ricercatori del King’s College di Londra in Inghilterra e della Monash University in Australia hanno istituito il registro CoviDiab , una risorsa in cui i medici possono presentare rapporti su pazienti con una storia confermata di COVID-19 e diabete di nuova diagnosi.  Più di 350 medici hanno presentato segnalazioni al registro, ha riferito The Guardian . Hanno segnalato sia il diabete di tipo 1, in cui il corpo attacca le cellule del pancreas che producono insulina, sia il diabete di tipo 2, in cui il corpo produce ancora un po ‘di insulina, anche se spesso non abbastanza, e le sue cellule non rispondono correttamente all’ormone.  Negli ultimi mesi, abbiamo visto più casi di pazienti che avevano sviluppato il diabete durante l’esperienza COVID-19 o subito dopo”, il dottor Francesco Rubino (nella foto), professore e presidente di chirurgia metabolica e bariatrica al King’s College di Londra , ha detto a The Guardian. “Ora stiamo iniziando a pensare che il collegamento sia probabilmente vero: esiste la capacità del virus di causare un malfunzionamento del metabolismo degli zuccheri “. Altri studi hanno trovato un collegamento tra COVID-19 e diabete.

Ad esempio, una revisione di otto studi , che includevano più di 3.700 pazienti COVID-19 ospedalizzati, ha mostrato che circa il 14% di questi pazienti ha sviluppato il diabete, secondo quanto riportato da Scientific American. Uno studio preliminare su 47.000 pazienti del Regno Unito ha rilevato che il 4,9% ha sviluppato il diabete, ha riferito The Guardian. “Vediamo chiaramente persone senza diabete che sviluppano il diabete”, ha detto a CTV News il dottor Remi Rabasa-Lhoret, medico e ricercatore di malattie metaboliche presso il Montreal Clinical Research Institute . “È altamente probabile che COVID-19 stia scatenando la malattia”. La grande domanda è perché e gli scienziati hanno diverse teorie.   Potrebbe essere che SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19, attacchi direttamente le cellule produttrici di insulina nel pancreas, ha riferito Scientific American. In alternativa, il virus può danneggiare indirettamente queste cellule infettando altre parti del pancreas o dei vasi sanguigni che forniscono ossigeno e sostanze nutritive all’organo. Un’altra teoria ancora suggerisce che il virus infetta altri organi coinvolti nella regolazione della glicemia, come l’intestino, e in qualche modo mina la capacità del corpo di abbattere il glucosio, più in generale.

Altri tipi di virus, come alcuni enterovirus , che causano varie condizioni, tra cui la malattia della mano, del piede e della bocca, sono stati collegati al diabete in passato, ha riferito The Guardian. Inoltre, un sottogruppo di pazienti che hanno contratto il coronavirus SARS-CoV, che ha causato focolai di sindrome respiratoria acuta grave all’inizio degli anni 2000, ha anche sviluppato il diabete in seguito, il dottor Mihail Zilbermint, un endocrinologo e professore associato presso la Johns Hopkins School of Medicine , ha detto a CTV News. In generale, le infezioni virali acute possono innescare una grave infiammazione nel corpo e, in risposta, il corpo produce ormoni legati allo stress, come il cortisolo, per ridurre l’infiammazione. Gli ormoni dello stress possono causare picchi nei livelli di zucchero nel sangue e tale aumento non sempre diminuisce dopo che l’infezione scompare, ha riferito Scientific American.  Inoltre, i pazienti COVID-19 sono spesso trattati con farmaci steroidei, come il desametasone, che può anche aumentare i livelli di zucchero nel sangue. Pertanto, è possibile che questi steroidi contribuiscano anche all’insorgenza del diabete nei pazienti COVID-19, ha detto Zilbermint a CTV News. Il diabete indotto da steroidi può regredire dopo che il paziente smette di prendere i farmaci, ma a volte la condizione diventa cronica, secondo Diabetes.co.uk .

Un altro fattore che contribuisce all’incertezza sul collegamento, tuttavia, è quanti dei pazienti avevano già prediabete, il che significa che avevano livelli di zucchero nel sangue superiori alla media, quando hanno preso COVID-19. “È possibile che [un] paziente viva con il prediabete da molti anni e non lo sapesse”, ha detto Zilbermint a CTV News. “Ora hanno un’infezione da COVID-19 e l’infezione li sta spingendo verso lo sviluppo del diabete”.   Gli scienziati non sono sicuri se le persone che hanno sviluppato il diabete dopo aver ricevuto COVID-19 avranno la condizione in modo permanente, ha detto Rabasa-Lhoret a CTV News. In almeno alcuni pazienti che hanno sviluppato il diabete dopo un’infezione da SARS, i loro sintomi diabetici alla fine sono diminuiti e il loro zucchero nel sangue è tornato a livelli normali dopo l’infezione, secondo un rapporto del 2010 sulla rivista Acta Diabetologica . I pazienti infetti da SARS-CoV-2 possono manifestare sintomi diabetici simili e di breve durata, ma ciò dovrà essere confermato con ulteriori studi.

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