Più aritmie cardiache nei giorni con l’aria molto inquinata

(da DottNet)   Nelle giornate con più alti livelli di inquinamento si registra un picco di casi di aritmie cardiache potenzialmente fatali. È quanto emerge da uno studio italiano presentato a Heart Failure 2022, congresso scientifico della European Society of Cardiology in corso a Madrid fino al 24 maggio.   “Abbiamo osservato che le visite in pronto soccorso dei pazienti con aritmia che avevano un defibrillatore impiantabile tendevano a concentrarsi nei giorni con livelli di inquinamento particolarmente alti”, dice la prima firmataria dello studio Alessia Zanni, dell’ospedale Maggiore di Bologna. Da qua l’idea di realizzare uno studio che provasse a mettere in relazione i due fenomeni.  La ricerca è stata condotta a Piacenza e ha incluso 146 pazienti che in passato avevano ricevuto l’impianto di un defibrillatore impiantabile: i dispositivi sono stati utilizzati per rilevare la comparsa di aritmie. I ricercatori hanno registrato 440 casi di aritmie ventricolari, osservando una correlazione con i livelli di inquinamento nell’aria. In particolare, per ogni innalzamento di 1 μg/m3 nei livelli di PM2.5 si registrava un aumento dell’1,5% del rischio di aritmie; nei casi in cui i livelli di PM2.5 erano di 1 μg/m3 al di sopra della media per un’intera settimana si verificava un aumento del 2,4%. Analogo il caso del PM10.  “La nostra ricerca suggerisce che le persone ad alto rischio di aritmia ventricolare, come quelli che hanno un defibrillatore impiantabile, dovrebbero verificare i livelli di inquinamento quotidiani” dice ancora Zanni. “Quando le concentrazioni di polveri PM2.5 e PM10 sono elevati (rispettivamente sopra i 35 μg/m3 e 50 μg/m3) potrebbe essere saggio rimanere a casa il più possibile e indossare una mascherina N95 se si va fuori, specie in aree con molto traffico”.

Riforma cure primarie in arrivo, Mantoan (Agenas): “Nel 2026 il miglior sistema sanitario del mondo”. Ecco come lavoreranno Mmg

(da Doctor33)    «Oggi il medico di famiglia si lamenta di essere oberato da compiti amministrativi. Nel 2026, a riforma delle cure primarie compiuta e con degli amministrativi in studio che gli toglieranno i compiti di troppo, il medico di famiglia quando accenderà il computer la mattina sarà travolto dall’informazione. Vedrà fascicoli sanitari, referti, tutto dei suoi pazienti in tempo reale e dovrà leggere centinaia di informazioni sanitarie distinguendo le situazioni critiche dove intervenire, dalle altre». Nelle parole di Domenico Mantoan Direttore Generale dell’Agenas, l’Agenzia dei Servizi sanitari regionali, c’è tutta l’evoluzione della sanità territoriale che si va decidendo in questi giorni, tra riordino delle strutture imposto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza cambiamenti organizzativi richiesti dal “decreto ministeriale 71” sui nuovi standard territoriali ed adozione a tappeto della telemedicina. Un giugno “di fuoco” che nella sua rivista “Monitor”, l’Agenzia ha annunciato con un’analisi sui problemi delle cure primarie in tutta Europa. «Gli altri stati europei sono già andati al di là della dicotomia tra modello universalistico e mutue, e del dibattito tuttora in corso da noi su come vengono contrattualizzati i medici, convenzione o contratto di dipendenza pubblica. Il punto comune alle sanità europee è che il medico di medicina generale non lavora da solo ma opera insieme ad infermieri, ostetriche, terapisti della riabilitazione, talora medici specialisti. In Italia la figura del medico di famiglia è ancora ferma agli anni 70-80: lavora da solo, fuori ha la sala d’attesa piena, il telefono che squilla, gli informatori. Serve un cambio di passo».
«In tutte le nazioni dell’Unione Europea è il team che prende in carico gli assistiti -continua Mantoan- e le differenze sono legate alle modalità di retribuzione. In Svezia medici ed infermieri sono entrambi dipendenti, in Spagna sono parte dipendenti e parte accreditati come team che includono anche medici specialisti e in tal caso vengono pagati in parte a quota fissa e in parte in base ai risultati di salute, in Francia e Germania il rapporto è mediato dai fondi sanitari». I numeri Ocse dicono che in 10 anni i medici di famiglia sono diminuiti del 10% negli stati membri. Mantoan ricorda che il lavoro in team ha permesso di prendere in carico più scelte. «La diminuzione dei medici non è un dato assoluto, va comunque considerato che anche da noi il medico negli ultimi anni ha preso in carico in media molto più di mille assistiti. Ma siccome la nostra programmazione era basata su un numero ottimale di 1000 medici, osserviamo che ci sono meno mmg. Nel contempo però sono aumentati i collaboratori». Tale processo è già avvenuto nel resto d’Europa. Dove, peraltro, ci sono problemi diversi dai nostri, anche se… non troppo. «Ad esempio, in Francia non esiste il concetto di zona carente. Il medico può scegliere di andare a lavorare dove vuole… e tutti scelgono le grandi città mentre le zone di campagna patiscono carenze, spesso supplite da altre figure. Dunque, i vari sistemi hanno luce ed ombre, ma balza all’occhio l’interdiscplinarietà».
Già Presidente dell’Agenzia del Farmaco e dell’Azienda sanitaria veneta, Mantoan conosce bene tutti gli step che hanno portato all’emanazione del DM sui nuovi standard territoriali che a giorni, preannuncia, sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale e sottolinea come tale decreto vada visto sempre in affiancamento alla telemedicina. «C’è un grosso investimento su televisite telemonitoraggio teleassistenza e teleconsulto, strumenti che già danno al medico di medicina generale la possibilità di consultare a distanza un collega in assistenza domiciliare di 3° livello od un cardiologo dell’ospedale di rifermento per poter prendere decisioni cliniche appropriate. Nel 2026 se realizzeremo quanto scritto nel PNRR l’Italia sarà il miglior sistema sanitario di cure primaie del mondo civile. Certo, dovremo aumentare il numero di infermieri e cambiare i modelli di formazione di infermieri e medici di famiglia, che a loro volta dovranno abituarsi a lavorare con strumenti ed esiti della telemedicina». Non per nulla, «come Agenas stiamo cercando programmi di intelligenza artificiale di supporto al mmg (e secondariamente al medico ospedaliero) nell’analisi dei dati sanitari. Perché il medico di famiglia dovrà leggere sia i dati clinici dei pazienti cronici sia quelli degli assistiti in buona salute per spingerli all’adozione di stili di vita corretti attraverso la medicina d’iniziativa». Mantoan è convinto non solo che ci sono le condizioni per cambiare l’offerta del Ssn ma anche che una parte del cambiamento si sia già verificata. «Un po’ d’inerzia va attribuita al fatto che negli ultimi 10 anni non si è investito. Abbiamo selezionato manager più attenti al risparmio che ai modelli innovativi. Adesso ci aspetta un periodo d’innovazione in cui sviluppare modelli organizzativi nuovi. Il PNRR non solo ci offre risorse ma con le sue “milestone” ci obbliga a garantire le riforme». E l’Italia lo sta facendo, «gli standard territoriali, in arrivo, abbiamo iniziato ad elaborarli nel 2021, li abbiamo presentati ai sindacati ad ottobre scorso, al ministro Speranza il 15 novembre, poi c’è stato il lungo passaggio in conferenza stato-regioni, e lì se non ci fosse stato, con la milestone, un appuntamento da garantire, avremmo visto arenarsi questo “DM71” sugli standard. Che, preannuncio, una volta in Gazzetta cambierà numero».

Dallo Spallanzani un manuale che spiega ai medici come difendersi dalle aggressioni

(da DottNet)    Ormai è un bollettino di guerra giornaliero: medici in prima linea vittime di pazienti aggressivi che li insultano fino ad arrivare, a volte, anche alle mani. E così l’Istituto Nazionale di Malattie infettive, lo Spallanzani di Roma, ha dato il via libera a un manuale di autodifesa per i suoi camici bianchi con l’obiettivo di insegnare al personale sanitario tecniche utili che possano provare a calmare i pazienti facinorosi che perdono la calma molto facilmente aggredendoli. Il direttore del nosocomio romano, Francesco Vaia, ha dato semaforo verde alla “procedura per la prevenzione e gestione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”, un vademecum di regole generali messe a punto dal direttore dell’unità risk management e biosicurezza, Vincenzo Puro, per insegnare ai medici come difendersi da calci e pugni.    Vediamo allora quali sono quali sono le misure da adottare per prevenire ogni forma di violenza. La prima raccomandazione per tutto il personale è quella di prestare attenzione a qualsiasi indizio “che possa essere associato a un attacco imminente” mantenendo un comportamento che porti alla riduzione dell’aggressività del paziente, mostrandosi tranquilli ma soprattutto non rispondendo alle minacce con altre minacce oltre a mantenere un tono di voce basso. Bisognerà cercare di essere “psicologi”, provando a riconoscere “i sentimenti delle persone” ed evitare qualsiasi atteggiamento che possa essere interpretato come aggressivo dal ricoverato. Spicca, tra i tanti consigli, quello di evitare di guardare il paziente fisso negli occhi per evitare che venga interpretato come una sfida.

Non mancano consigli legati alla postura da adottare, come quella di posizionarsi a fianco dello stesso “con un asse di circa 30° perché la superfice esposta a colpi è minore ed inoltre in questa posizione si comunica più disponibilità al dialogo”. Così come vale per il distanziamento per evitare il contagio al Covid, anche in questo caso viene consigliato ai medici di mantenere una distanza di sicurezza di almeno un metro e mezzo fino a evitare di mettersi con le spalle contro il muro. Con un paziente particolarmente arrabbiato si può usare la “tattica” dell’empatia e della commiserazione usando brevi frasi quali “so che lei si sente abbattuto” mostrandosi afflitti per la situazione. Infine, se nessuna misura riuscisse a funzionare, non rimane che chiamare la vigilanza o chiedere aiuto ad altri colleghi.   I numeri danno idea di una situazione allarmante: le aggressioni sono a carico del 65% dei camici bianchi e per un terzo delle volte anche di carattere fisico, soprattutto nei reparti di Psichiatria e in Pronto soccorso. Le conseguenze sono diverse e tutte gravi. Si parla di disturbo post-traumatico da stress, che permane anche a lungo termine e che determina atteggiamenti di difesa e condanna la persona aggredita a vivere in uno stato di continua allerta. Con evidenti ripercussioni sul benessere psicofisico del personale sanitario aggredito, ma anche sulle sue performance lavorative e, quindi, sulla qualità dell’assistenza ai pazienti.

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