Ospedali, un posto letto su 5 è nel privato

(da DottNet)   Nel 2022 il servizio sanitario nazionale ha potuto contare su 203.800 posti letto per degenza ordinaria, il 20,8% dei quali si trovano in strutture private accreditate. A questi si aggiungono 11.906 posti per day hospital, quasi totalmente pubblici (89,1%) e di 8.253 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (76,9%). Sono alcuni dei dati che emergono dall’ultima edizione dell’Annuario statistico del Servizio Sanitario Nazionale pubblicata dal ministero della Salute. Secondo il rapporto, a livello nazionale sono disponibili 3,8 posti letto ogni 1.000 abitanti, con forti differenze regionali nella loro distribuzione: in Liguria sono pubblici 3,9 posti letto per mille rispetto ai 2,2 della Calabria; tuttavia la Calabria, insieme a Lazio e P.A. di Trento, si situa al posto più alto in classifica per numero di posti letto nel privato (1,1 per mille abitanti). Nel complesso è in lieve crescita il numero di posti letto per degenza ordinaria, dal 2015 al 2022 si è registrato un +5% di posti letto (soprattutto nel pubblico), con un picco nel 2020 legato alla pandemia, quando in un solo anno i posti letto per degenza ordinaria sono aumenti di quasi 40 mila unità, superando i 189 mila.

Questi posti letto hanno consentito di gestire nel pubblico 4.510.987 di ricoveri con quasi 35 milioni di giornate di degenza complessiva (7,7 giorni a paziente). A questi si sommano 794.590 ricoveri nel privato con 3.962.509 di giornate di degenza (5 giorni a paziente). Il rapporto tra pubblico e privato cambia però guardando all’emergenza: solo il 2,7% delle strutture private ha un dipartimento di emergenza (rispetto al 53% del pubblico), il 5,4% ha un pronto soccorso (rispetto all’80% del pubblico), lo 0,21% un pronto soccorso pediatrico (rispetto al 18,2% del pubblico), il 9,5% un centro di rianimazione (rispetto al 68,9% delle strutture pubbliche).

L’Europa affronta l’epidemia di solitudine

(da Univadis – riproduzione parziale)     La solitudine non è più solo un problema personale: è un’epidemia silenziosa. Il Vivek H. Murthy, US General Surgeon degli Stati Uniti (una carica che ha il compito di dare consigli medici alla popolazione in materia di salute e prevenzione) l’ha  paragonata al fumo, sostenendo che è dannosa quanto 15 sigarette al giorno. Il tributo pagato alla salute è impressionante e va dai rischi cardiovascolari ai problemi di salute mentale. È ora di affrontare la brutale verità: la solitudine non fa solo male all’animo ma minaccia il nostro stesso benessere.   Negli anziani, la solitudine è collegata a un rischio maggiore del 50% di sviluppare demenza, un rischio maggiore del 30% di malattia coronarica o ictus e un rischio maggiore del 26% di mortalità per tutte le cause. È anche associata a un rischio maggiore di malattie cardiache nelle persone con diabete. Infatti, la solitudine è un fattore predittivo di malattie cardiovascolari nelle persone con diabete persino più forte della dieta, dell’esercizio fisico, del fumo o della depressione.   Riconoscendo la solitudine come una priorità per la salute pubblica globale, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha lanciato una Commissione sulla Connessione Sociale, che mira a fornire prove chiare ai responsabili politici e agli operatori del settore sui modi migliori per migliorare l’interazione sociale.

Valutazione della solitudine in Europa

Quanto è grande il problema? Secondo la prima indagine sulla solitudine in tutta l’Unione Europea (UE), EU-LS 2022, condotta dal Joint Research Center (JRC), circa il 13% dei 20.000 intervistati ha riferito di essersi sentito solo per la maggior parte o per tutto il tempo nelle 4 settimane precedenti l’indagine.   I cittadini di Irlanda, Lussemburgo, Bulgaria e Grecia si sono sentiti più soli, mentre Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Croazia e Austria hanno registrato i livelli più bassi di solitudine.   Inoltre, la solitudine non colpisce solo gli anziani.  “Alcuni studi mostrano una relazione a U, con alti livelli di solitudine sia tra i giovani sia tra gli anziani, mentre altri indicano una continua diminuzione della solitudine con l’età”, ha spiegato Elizabeth Casabianca, analista socioeconomica del JRC, a Medscape Medical News.   “Gli interventi sulla solitudine sono spesso rivolti agli adulti più anziani. Tuttavia, sono necessari anche interventi per i giovani. Gruppi di età diverse vivono la solitudine in modo diverso, quindi è importante considerare attentamente le esigenze del gruppo target e adattare gli interventi di conseguenza”.

Legami con l’uso dei social media

La solitudine è stata anche collegata a un maggiore uso dei social network, indicando che queste piattaforme potrebbero sostituire i legami offline con quelli online.  Courtney Queen, professore associato presso il Dipartimento di Salute Pubblica della Texas Tech University, Lubbock, Texas, e visiting professor presso la Stradiņš University di Riga, in Lettonia, ha dichiarato a Medscape Medical News: “Mentre molti studi suggeriscono un’associazione tra l’uso dei social media e la solitudine, abbiamo bisogno di saperne di più su altre domande fondamentali, come: l’aumento dell’uso dei social media comporta sempre un aumento della solitudine? Sicuramente no. Chiunque si impegni nell’uso dei social media si sente automaticamente più solo? Sicuramente no. E questa solitudine dura per sempre? Anche questo è poco probabile”.    “A volte è difficile individuare queste associazioni, poiché è più probabile che le persone sole si dedichino ai social media rispetto a quelle che si sentono già socialmente connesse” ha osservato Queen, che ha studiato a fondo l’uso della tecnologia tra gli europei come mediatore della solitudine.

Gli operatori sanitari possono fare la loro parte

Gli operatori sanitari svolgono un ruolo essenziale nell’identificare la solitudine e nel minimizzare il suo impatto sulla salute mentale e fisica.  “Il primo passo per gli operatori sanitari è quello di effettuare uno screening della solitudine e delle sue cause, in modo da poter fornire un’assistenza personalizzata, un supporto emotivo e l’accesso alle risorse della comunità”, ha dichiarato il geriatra Michael Cantor, geriatra con base negli Stati Uniti, in un’intervista a Medscape Medical News.   Secondo Cantor, “la pratica migliore è quella di utilizzare un approccio proattivo, integrando le valutazioni della salute mentale nei controlli di routine, collegandosi con i programmi di coinvolgimento comunitario, accogliendo i progressi tecnologici e formando gli operatori a riconoscere e affrontare la solitudine. Queste iniziative assicurano che gli operatori sanitari non si limitino a trattare le condizioni mediche, ma contribuiscano attivamente al benessere generale delle persone anziane”.

Un invito all’azione coordinata

Il percorso dall’isolamento all’inclusione dovrebbe prevedere non solo il riconoscimento del problema, ma anche l’attuazione di politiche e interventi mirati.  A livello locale, i programmi comunitari possono essere molto efficaci. Offrono un’ampia gamma di attività e risorse che rispondono a esigenze diverse e creano un ambiente che favorisce la connessione sociale.

Tra ospedalieri, mmg, pediatri e continuità assistenziale quasi 11 mila medici in meno in dieci anni

(da DottNet)    In dieci anni il Servizio sanitario nazionale ha perso 10.912 medici tra ospedalieri, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e di continuità assistenziale (ex guardia medica). È questo il dato che emerge dal confronto tra il 2022 e il 2012 secondo i dati del Ministero della Salute. In controtendenza gli infermieri che negli ultimi dieci anni sono aumentati di 7.076 unità.

Medici ospedalieri. Nel 2012 il Ssn ne annoverava 104.618 contro i 101.827 del 2022 (-2.791)

Medici convenzionati. I medici di famiglia dai 45.437 che erano nel 2012 sono diventati 39.366 nel 2022 (-6.071). In calo anche i pediatri (-694 in 10 anni per un totale nel 2022 di 6.962 unità). In frenata anche i medici di continuità assistenziale (ex guardia medica) che dagli 12.027 che erano nel 2012 sono diventati 10.671 nel 2012 (-1.356).

Infermieri. In crescita gli infermieri: nel 2012 erano 260.937 contro i 268.013 del 2022.

Salute: la personalità influenza l’espressione dei nostri geni

(da AGI)   La nostra personalità altera l”espressione dei nostri geni. Lo dimostra uno studio internazionale condotto dall”Università di Granada (Spagna) utilizzando l”intelligenza artificiale e pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry (Nature). Lo studio multi e interdisciplinare è stato condotto da ricercatori dell”Istituto interuniversitario andaluso di ricerca in scienza dei dati e intelligenza computazionale (DaSCI), del Dipartimento di informatica e intelligenza artificiale dell”UGR e dell”Istituto di ricerca sulla biosalute di Granada (ibs.GRANADA). Lo studio è stato effettuato in collaborazione con il professor Robert Cloninger (Washington University di St. Louis), ricercatori del Baylor College of Medicine (Texas, USA) e dello Young Finns Study (Finlandia). Il gruppo di ricerca internazionale (composto da specialisti in genetica, medicina, psicologia e informatica) ha utilizzato i dati dello Young Finns Study, un ampio studio condotto sulla popolazione generale della Finlandia per oltre quattro decenni durante il quale sono state raccolte informazioni rilevanti sulla salute dei partecipanti , condizione fisica e stile di vita. Inoltre, i partecipanti sono stati sottoposti ad approfondite valutazioni della personalità che hanno riguardato sia il temperamento (abitudini e reattività emotiva) che il carattere (obiettivi e valori coscienti). I risultati hanno mostrato che alcune visioni della vita favoriscono una vita sana, appagante e lunga, mentre altre portano a una vita stressante, malsana e breve. Lo studio ha analizzato la regolazione dell”espressione genetica in questi individui, tenendo conto di tre livelli di autoconsapevolezza misurati attraverso la combinazione del loro temperamento e dei loro profili caratteriali. Questi livelli sono stati definiti “non regolamentati” – individui dominati da emozioni e abitudini irrazionali associate alle loro tradizioni e all”obbedienza all”autorità, “organizzati” – individui autosufficienti capaci di regolare intenzionalmente le proprie abitudini e cooperare con gli altri per il reciproco vantaggio e, infine, “creativo” – individui auto-trascendenti che adattano le proprie abitudini per vivere in armonia con gli altri, con la natura o con l”universo, anche se ciò richiede occasionali sacrifici personali.

Mantenersi attivi aiuta a dormire meglio

(da Univadis)     L’attività fisica portata avanti con costanza negli anni riduce il rischio di insonnia e quello di dormire troppo o troppo poco. È quanto riportano sulla rivista BMJ Open i ricercatori guidati da Eva Bjornsdottir del dipartimento di psicologia all’Università di Reykjavik, in Islanda, che hanno portato avanti uno studio di coorte su oltre 4.300 persone arruolate in 21 centri di 9 paesi europei.   “I disturbi del sonno sono molto comuni nella popolazione generale e hanno un impatto su salute e qualità di vita” esordiscono gli autori. “Numerosi studi suggeriscono che l’attività fisica possa migliorare i sintomi dell’insonnia cronica ma ad oggi non sappiamo quanto siano significativi tali benefici e quali fattori possano influenzarli” aggiungono, spiegando che ci sono anche dati a sostegno di un’associazione tra attività fisica e ridotta sonnolenza diurna. 

Parola d’ordine: costanza

I dati oggi disponibili non dispongono di un follow-up sufficientemente esteso e difficilmente gli studi precedenti hanno valutato più esiti legati al sonno contemporaneamente. Proprio per colmare queste lacune e valutare in dettaglio l’associazione tra attività fisica e sonno, Bjornsdottir e colleghi hanno valutato le risposte dei partecipanti a domande sull’attività fisica al basale e su attività fisica, sintomi dell’insonnia, durata del sonno e sonnolenza diurna a 10 anni di follow-up. “Sulla base dei cambiamenti nell’attività fisica, abbiamo identificato quattro gruppi di partecipanti: costantemente non attivi; diventati inattivi; diventati attivi e costantemente attivi” scrivono i ricercatori.

Dopo aggiustamenti per età, sesso, indice di massa corporea, storia di fumo e centro di studio, chi era rimasto costantemente attivo aveva meno probabilità di riportare difficoltà nell’addormentarsi (OR 0,60) e di avere una durata del sonno particolarmente breve (≤ 6 ore/notte; OR 0,71) e particolarmente lunga (≥ 9 ore/notte; OR 0,53) rispetto a chi era rimasto costantemente inattivo.    Come ricordano gli autori, una limitazione dello studio è rappresentata dal fatto che i dati sui disturbi del sonno sono stati riferiti dai partecipanti e non erano disponibili diagnosi mediche o misurazioni oggettive. Di contro, però, il follow-up di 10 anni ha permesso di valutare l’impatto della costanza nell’attività fisica sul sonno. “I nostri risultati sono in linea con quelli di altri studi che mostrano un beneficio dell’attività fisica sui sintomi dell’insonnia, ma aggiungono un dato importante, ovvero l’importanza di mantenere un’attività fisica costante nel tempo” affermano Bjornsdottir e colleghi, precisando che chi è fisicamente attivo in generale ha anche maggiori probabilità di adottare uno stile di vita più sano, comportando un effetto anche sul sonno. 

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