Muscoli più efficienti con la restrizione calorica

(da DottNet)   Una riduzione dell’apporto calorico di soltanto il 12% può innescare cambiamenti benefici nell’organismo e indurre, tra le altre cose, un miglioramento nel funzionamento dei muscoli.  È il risultato di uno studio coordinato dal National Institute on Aging americano e pubblicato sulla rivista ‘Aging Cell’. Da diversi anni la ricerca ha dimostrato negli animali che una riduzione importante dell’apporto calorico prolunga l’aspettativa di vita e produce un generale miglioramento dello stato di salute. Il nuovo studio si inserisce nel filone di ricerca che sta cercando di verificare se gli stessi effetti si osservano nell’uomo. Nella sperimentazione, 90 persone sono state sottoposte per due anni a una riduzione di circa il 12% dell’apporto calorico. Ciò ha prodotto una perdita di peso del 10,4%, un miglioramento del profilo cardiometabolico e della salute cardiovascolare. 

“Una riduzione del 12% è molto modesta”, ha detto in una nota il coordinatore dello studio Luigi Ferrucci. “È fattibile e può fare una grande differenza nella salute”. Significativi gli effetti sui muscoli: anche se si è verificata una leggera riduzione della massa muscolare, a questa non è corrisposto un calo della forza, a dimostrazione che i muscoli hanno cominciato a funzionare meglio. Test molecolari, eseguiti su campioni di muscoli dei partecipanti, hanno scoperto che erano stati attivati nell’uomo quegli stessi meccanismi genetici che negli animali si ritengono responsabili dei benefici della restrizione calorica, in particolare alcuni geni coinvolti nella produzione di energia e nel controllo dell’infiammazione.  “Poiché l’infiammazione e l’invecchiamento sono fortemente correlati, la restrizione calorica rappresenta un approccio potente per prevenire lo stato pro-infiammatorio sviluppato da molte persone anziane”, ha aggiunto Ferrucci.

L’antibiotico-resistenza viaggia sui rifiuti di plastica

(da DottNet)     L’inquinamento causato dalla plastica potrebbe diventare un importante veicolo di trasmissione di organismi patogeni dannosi per l’uomo e agire come un serbatoio di geni che conferiscono ai batteri la capacità di resistenza agli antibiotici. È quanto suggerisce uno studio coordinato da ricercatori della University of Warwick di Coventry (Gran Bretagna) pubblicato sulla rivista ‘Microbiome’. “Si stima che i fiumi trasportino ogni anno tra 1,15 e 2,41 milioni di tonnellate di detriti di plastica negli oceani”, scrivono i ricercatori. Una mole enorme che ormai può essere trattata come una vera e propria nicchia ecologica, per la quale è stato coniato il termine di ‘plastisfera’, osservano gli autori della ricerca. 

I ricercatori hanno cercato di ricostruire l’interazione tra oggetti di plastica presenti nei fiumi e i microrganismi patogeni, indagando inoltre in cosa la plastica si differenzi da altri materiali. In test condotti sul fiume Sowe, in Gran Bretagna, il team ha scoperto che la plastica immersa nel fiume veniva rapidamente colonizzata da organismi patogeni. Tuttavia, le tipologie di batteri che attecchivano sulla plastica tendevano a essere diverse rispetto a quelle più presenti nell’acqua, con la prevalenza di batteri come Pseudomonas aeruginosa, Acinetobacter. Differenze sono state riscontrate anche negli indicatori di resistenza agli antibiotici, che erano differenti e presenti in quantità maggiore sulla plastica, specie su quella più degradata.

Non è ancora chiaro a cosa sia dovuto il fenomeno. Un’ipotesi è il processo di degradazione della plastica rilasci composti che favoriscono la crescita dei batteri, ma per i ricercatori è urgente “studiare i rischi che l’inquinamento da plastica può comportare per la salute umana e la diffusione dei geni di resistenza antimicrobica nell’ambiente”.

Parkinson, verso una diagnosi precoce con un esame del sangue

(da Doctor33)     In uno studio pubblicato su ‘Science Translational Medicine’ è stato descritto un esame del sangue in grado di rilevare precocemente la malattia di Parkinson.   «Attualmente, la malattia di Parkinson viene diagnosticata in gran parte sulla base di sintomi clinici, dopo che si è già verificato un danno neurologico significativo. Questo esame del sangue ci potrebbe consentire di diagnosticare la malattia e di iniziare le terapie molto prima» spiega Laurie Sanders, della Duke School of Medicine, negli Stati Uniti, autrice senior del lavoro.
I ricercatori si sono concentrati sul danno al DNA nei mitocondri come biomarcatore per il loro strumento diagnostico. Studi precedenti avevano associato il danno al DNA mitocondriale a un aumento del rischio di malattia di Parkinson, e gli esperti avevano precedentemente segnalato un accumulo di danno al DNA mitocondriale nel tessuto cerebrale di pazienti deceduti con Parkinson. Utilizzando la PCR (polymerase chain reaction), gli autori hanno sviluppato un test che ha quantificato con successo livelli più elevati di danno al DNA mitocondriale nelle cellule del sangue raccolte da pazienti con malattia di Parkinson rispetto a persone senza la malattia. Il nuovo esame ha identificato anche alti livelli di DNA danneggiato nei campioni di sangue di persone portatrici della mutazione genetica LRRK2, che è stata associata ad un aumentato rischio di malattia. Un’ulteriore analisi su cellule di pazienti affetti da morbo di Parkinson ha valutato se il test potesse determinare l’efficacia di una terapia mirata agli effetti associati alla mutazione LRRK2. In questi campioni, il test ha identificato un danno inferiore al DNA mitocondriale nelle cellule trattate con un inibitore di LRRK2 rispetto ai campioni di pazienti che non avevano ricevuto l’inibitore, e questo suggerisce che l’analisi potrebbe aiutare a individuare i pazienti potenzialmente in grado di trarre beneficio dai trattamenti con inibitori della chinasi LRRK2 anche se non hanno una mutazione LRRK2.   «La nostra speranza è che questo test possa non solo aiutare a diagnosticare la malattia di Parkinson, ma anche identificare farmaci che invertono o arrestano il danno al DNA mitocondriale e il processo patologico» concludono gli autori.
(Science Translational Medicine 2023. Doi: 10.1126/scitranslmed.abo1557  http://doi.org/10.1126/scitranslmed.abo1557

Stress cronico e depressione collegati a deterioramento cognitivo lieve e malattia di Alzheimer

(da Quotidiano Sanità)   Le persone di età compresa tra 18 e 65 anni che soffrono di stress cronico e/o di depressione hanno più probabilità, rispetto alla popolazione generale nella stessa fascia d’età, di ricevere una diagnosi di deterioramento cognitivo lieve o di Malattia di Alzheimer. È quanto emerge da una ricerca coordinata da un team del Karolinska Institutet di Stoccolma e pubblicata da ‘Alzheimer’s Research & Therapy’.
Precedenti studi avevano già mostrato una possibile associazione tra stress cronico, depressione e demenza. Lo studio del Karolinska Institutet evidenzia, in particolare, che il rischio di malattia di Alzheimer è più del doppio nei pazienti con stress cronico e in quelli con depressione rispetto ai pazienti senza queste patologie psichiatriche; nei pazienti con entrambi i disturbi, il rischio è fino a quattro volte più alto.
Lo studio svedese è stato condotto utilizzando il database sanitario amministrativo della regione di Stoccolma. Il team ha preso in considerazione 44.447 persone tra 18 e 65 anni con una diagnosi di stress cronico e/o depressione e le hanno seguite per otto anni.

Rispetto agli individui di pari età, quasi 1,4 milioni, è emerso che un numero maggiore di persone con stress cronico o depressione aveva ricevuto anche una diagnosi di lieve deterioramento cognitivo o di malattia di Alzheimer. “Il rischio nella popolazione considerata è basso e la causalità è incerta, ma la scoperta è importante perché consente di migliorare gli sforzi preventivi e comprendere i collegamenti con gli altri fattori di rischio per la demenza”, conclude Axel Carlsson, autore senior della ricerca.

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