Crediti Ecm: termine ultimo 31 dicembre, nessuna proroga

(da DottNet)    Entro il 31 dicembre 2021 tutti i professionisti sanitari dovranno mettersi in regola con i Crediti ECM. In caso contrario potranno incorrere in serie sanzioni disciplinari da parte degli Ordini di competenza, tra cui la sospensione dall’attività professionale. Dopo il 31 dicembre di quest’anno non sarà più possibile recuperare i crediti non conseguiti nei trienni (2014-206 e 2017-2019). A partire dal 2022 partiranno i primi controlli ed eventuali provvedimenti ordinistici. Ogni triennio, compreso il 2020-2022, servono almeno 150 crediti ECM. Nel 2020, come si ricorderà, era stato sospeso l’obbligo formativo per il Covid. Da questi vanno sottratti, quindi, i 50 crediti bonus per i soggetti che abbiano continuato a svolgere la propria attività durante l’emergenza pandemica. E non è tutto, qualora nel triennio precedente, 2017-2019, siano stati acquisiti tutti i crediti previsti, vi è un ulteriore sconto di 30 crediti. Al netto degli sconti e bonus previsti, l’obbligo formativo per il triennio 2020-2022 è, dunque, di 70 crediti.

Il termine ultimo del 31 dicembre è stato confermato dal sottosegretario Sileri in un’intervista a Quotidiano Sanità. “Al momento non sono in discussioni ulteriori proroghe o eventuali deroghe. I colleghi, quindi, avranno circa 3 mesi per assolvere al loro obbligo formativo”. Dal 2022 partiranno controlli e sanzioni, che spettano agli Ordini. La norma prevede un illecito disciplinare che può andare dall’avvertimento alla sospensione, oltre ad una serie di ulteriori conseguenze che possono arrivare anche alla radiazione, afferma Sileri. “È inoltre in corso di valutazione il coinvolgimento nell’ambito sanzionatorio anche delle assicurazioni professionali. Confido, tuttavia, che non vi sarà la necessità di arrivare fino alle sanzioni. Pur comprendendo perfettamente l’incredibile sforzo di medici e operatori sanitari, sono convinto che ognuno di loro consideri l’aggiornamento professionale come un’opportunità per stare al passo con i progressi della medicina e non come un’imposizione. L’obiettivo infatti è sempre uno solo: garantire a tutti i pazienti le migliori cure e la migliore assistenza”, precisa il sottosegretario a QS.

Rapporto su professionalità ed etica dell’American Heart Association e dell’American College of Cardiology

(da Popular Science e MSD Salute)   La rivista ‘Circulation’ ha pubblicato il nuovo rapporto dell’American Heart Association (AHA) e dell’American College of Cardiology (ACC) sull’etica e la professionalità medica.
Il documento affronta argomenti importanti e attuali come diversità, equità, inclusione e appartenenza, disuguaglianze etniche e di genere, conflitto di interessi, benessere clinico, privacy dei dati, giustizia sociale e moderni sistemi di erogazione dell’assistenza sanitaria nella medicina cardiovascolare.  Il rapporto si basa sugli atti della Consensus Conference on Professionalism and Ethics 2020 e aggiorna le precedenti linee guida pubblicate dai gruppi nel 2004. Il comitato di redazione del rapporto è un gruppo eterogeneo di cardiologi, internisti e professionisti sanitari associati e non specialisti, organizzati in cinque Task Force, ciascuna delle quali ha affrontato una serie specifica di argomenti correlati.     Le raccomandazioni per sostenere l’equità nella cura del paziente includono, tra le altre cose, una revisione annuale delle pratiche, per valutare le eventuali differenze nel trattamento dei pazienti in base alla “razza” (tra virgolette, in quanto termine biologicamente scorretto ma socialmente in uso), all’etnia e alla lingua primaria.
Questa revisione dovrebbe valutare strutture, politiche e norme e identificare opportunità di intervento e miglioramento. L’AHA e l’ACC ribadiscono la loro approvazione dei Principles of Professionalism pubblicati nel 2002 nella Physician Charter on Medical Professionalism. Entrambe le organizzazioni riaffermano inoltre il loro impegno per la giustizia sociale nelle nuove raccomandazioni. “Fino all’80% della salute di una persona è determinata dalle condizioni sociali ed economiche del suo ambiente”, commenta Ivor Benjamin, primo autore del rapporto. “Per raggiungere la giustizia sociale e mitigare le disparità sanitarie, dobbiamo spostare le nostre discussioni e includere le popolazioni come i gruppi rurali ed emarginati dal punto di vista dell’equità sanitaria”.

Il rapporto chiede una formazione su questi temi come parte dei requisiti e delle esperienze del corso della scuola di medicina: un corso obbligatorio su giustizia sociale, “razza” e razzismo come parte del curriculum del primo anno; programmi scolastici e organizzazioni professionali che sostengono studenti, tirocinanti e membri e un’immersione e una collaborazione con le comunità circostanti.    Il rapporto descrive in dettaglio ulteriori opportunità per migliorare l’efficienza della tecnologia dell’informazione sanitaria, come le cartelle cliniche elettroniche, e ridurre gli oneri amministrativi; identificare e assistere i medici che sperimentano condizioni di salute mentale, alcolismo o abuso di sostanze; enfatizzare l’autonomia del paziente utilizzando un processo decisionale condiviso e un’assistenza centrata sul paziente che supporti i valori del singolo paziente; ulteriori protezioni della privacy per i dati dei pazienti utilizzati nella ricerca; indicazioni sul mantenimento dell’integrità man mano che emergono nuove modalità di erogazione dell’assistenza (ad esempio, telemedicina, approcci assistenziali basati sul team, centri specializzati di proprietà dei medici); audit di routine delle cartelle cliniche elettroniche per promuovere un’assistenza ottimale ai pazienti nonché una pratica medica etica; e ampliare e rendere obbligatoria la segnalazione di interessi intellettuali o associativi oltre ai rapporti con l’industria.   Naturalmente la questione razziale è molto sentita negli Stati Uniti, ma non solo.  “Non c’è momento migliore di adesso per rivedere, valutare e assumere una nuova prospettiva sull’etica e la professionalità medica”, commenta Michael Valentine, co-autrice del rapporto. Ci auguriamo che questo rapporto fornisca ai professionisti cardiovascolari e ai sistemi sanitari le raccomandazioni e gli strumenti necessari per affrontare i conflitti di interesse, razziali ed etnici e le disuguaglianze di genere e favorisca la diversità, l’inclusione e il benessere tra la nostra forza lavoro”.

Diecimila passi al giorno? In realtà pare che ne bastino meno

(da M.D. Digital) L’Organizzazione mondiale della sanità, l’American Heart Foundation e il Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti hanno concordato nell’adottare i 10mila passi come raccomandazione sull’attività fisica da fare quotidianamente, ma negli ultimi anni la veridicità di questo numero è stata messa più volte in discussione. C’è anche una sorpresa: l’obiettivo dei 10mila passi non deriva da conferme scientifiche ma è frutto di una trovata pubblicitaria. Nel 1964, all’epoca dei Giochi Olimpici, la società giapponese Yamasa lancio sul mercato il primo contapassi e battezzandolo “manpo-kei”, cioè “10mila passi”, ritenendo che questo fosse un numero indicativo di uno stile di vita attivo e quindi sano. Tuttavia, questo numero non è mai stato scientificamente provato.  Esistono invece conferme scientifiche che indicano quanto è opportuno camminare per mantenersi in buona salute: secondo uno studio pubblicato su JAMA Network Open, le persone che fanno 7.000 passi o più al giorno hanno un rischio inferiore di morte prematura rispetto a coloro che fanno meno passi al giorno.   I ricercatori dell’Institute for Applied Life Sciences presso l’Università del Massachusetts, Amherst, hanno utilizzato i dati dello studio Coronary Artery Risk Development in Young Adults per stimare l’associazione tra numero di passi al giorno con la prematura mortalità (età compresa tra 41 e 65 anni) per tutte le cause. L’analisi ha incluso 2.110 partecipanti (di età compresa tra 38 e 50 anni) con numero di passi giornalieri misurati da un accelerometro dal 2005 al 2006 e con un follow-up medio di 10.8 anni.  I ricercatori hanno osservato un rischio significativamente più basso di mortalità nei gruppi a numero di passi moderato (rapporto di rischio, HR 0.28; differenza di rischio, 53 eventi per 1.000 persone) e alto (HR 0.45; differenza di rischio, 41 eventi per 1.000 persone) rispetto a numeri bassi.  Un numero di passi moderato/alto era associato a un rischio ridotto di mortalità nei partecipanti di razza nera (HR 0.30) e di razza bianca (HR 0.37) e in entrambi nelle donne (HR 0.28) e negli uomini (HR 0.42).   Se camminare fa indubbiamente bene non dobbiamo però essere ossessionati dal raggiungimento dell’obiettivo dei 10mila passi, dato che non vi sono evidenze che questo sia strettamente necessario per mantenersi in salute.

(Paluch AE, et al. Steps per Day and All-Cause Mortality in Middle-aged Adults in the Coronary Artery Risk Development in Young Adults Study. JAMA Netw Open 2021; 4: e2124516. doi:10.1001/jamanetworkopen.2021.24516

Spartano NL, et al.  What Are the Next Steps for Developing a National Steps Guideline? JAMA Netw Open 2021; 4: e2125267. doi:10.1001/jamanetworkopen.2021.25267)

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