Studio ISS, morbillo: quasi un italiano su 10 è a rischio infezione

(da DottNet)   Quasi un italiano su dieci – il 9,2% – non ha l’immunità al morbillo e potrebbe contrarre l’infezione se incontrasse il virus. La percentuale è più alta tra i giovani adulti tra 20 e 40 anni, che costituiscono un gruppo particolarmente a rischio e contribuiscono in maniera determinante alla diffusione dei contagi. Sono i dati che emergono da uno studio coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla Fondazione Bruno Kessler pubblicato dalla rivista The Lancet Infectious Diseases.    Lo studio ha analizzato i quasi 15 mila casi di morbillo (con 14 morti) che sono stati notificati al sistema nazionale di sorveglianza integrata morbillo e rosolia, tra il 2013 e il 2022. La fascia di età in cui l’incidenza dell’infezione è più alta è quella dei bambini sotto i 5 anni, ma oltre la metà dei casi ha riguardato giovani adulti, tra i 20 e i 39 anni.  Circa 9 infezioni su 10 hanno riguardato persone non vaccinate. Queste ultime, inoltre, sono anche responsabili dell’88,9% dei contagi secondari (cioè quelli che seguono il cosiddetto ‘caso indice’ nei focolai).

Un terzo degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Inoltre, il 35,5% dei contagi è avvenuto in ambito familiare.  L’analisi ha anche stimato la quota di italiani suscettibile al morbillo nel 2025: si tratta del 9,2% della popolazione generale, l’11,8% nella fascia con meno di 20 anni. Il dato però, ha una grande variabilità regionale, con il centro-nord che tende ad avere valori di immunità maggiori.   “Gli adulti non vaccinati contribuiscono in maniera sostanziale alla trasmissione del morbillo in Italia”, scrivono gli autori nelle conclusioni dello studio. “Esiste una grande eterogeneità regionale nell’immunità: alcune regioni mostrano basse coperture vaccinali nei bambini, mentre altre hanno una grande proporzione di adulti suscettibili. Questi risultati enfatizzano il bisogno di strategie vaccinali mirate, comprese campagne di recupero rivolte agli adulti”, concludono.

Ecco le conclusioni principali:

– La maggior parte (88,9%) delle infezioni secondarie (quelle che seguono il cosiddetto ‘caso indice’ nei focolai) è stata causata da individui non vaccinati. Solo l’1,1% delle infezioni sono avvenute tra persone entrambe vaccinate con almeno una dose.

– Un terzo (33,3%) degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Il 35,5% dei contagi secondari è avvenuto in ambito familiare.

– Nel 2025 il 9,2% della popolazione italiana è suscettibile al morbillo, e solo l’88,2% dei giovani sotto i 20 anni è immune. Il dato ha una grande variabilità regionale: per quanto riguarda la popolazione generale, le regioni del centro-nord registrano le percentuali più alte di suscettibili, mentre tra i giovani sotto i 20 anni la provincia di Bolzano e la Calabria risultano essere quelle con più soggetti suscettibili.

– Nonostante alcune regioni abbiano raggiunto alti tassi di vaccinazione nei bambini, grazie alla legge sull’obbligo introdotta nel 2017, l’analisi indica che non necessariamente questo si traduce in un minor rischio di trasmissione, soprattutto per la presenza di ampie sacche di adulti non immunizzati.

– Il numero di riproduzione stimato per il 2025 varia da 1,31 a 1,78 in tutte le regioni, in linea con la trasmissibilità stimata nei focolai del decennio precedente.

Mappatura dei nei, Fimmg e dermatologi a confronto sul ruolo dei medici di famiglia

(da Doctor33)   La vicenda della mappatura dei nei è esplosa in Veneto dopo che alcune Ulss hanno chiarito che l’esame non è più prescrivibile come prestazione autonoma a carico del Servizio sanitario nazionale. Dal 2025, infatti, la nuova lista dei Lea prevede che la mappatura possa avvenire solo nell’ambito di una prima visita dermatologica, con ticket fissato a 25,40 euro. Per controlli preventivi sistematici, invece, i cittadini dovranno rivolgersi al privato.

Nei giorni scorsi il segretario generale della Fimmg, Silvestro Scotti, in un’intervista a ilfattoquotidiano.it ha chiarito che «il nuovo nomenclatore non ha eliminato la mappatura, ma l’ha inclusa nella prima visita dermatologica, migliorando appropriatezza e costi». Secondo Scotti, tuttavia, lo screening preventivo dei nei resta un punto debole del sistema: «Dire che non sia efficace è sbagliato. È uno strumento importante per la diagnosi precoce del melanoma». Da qui la proposta di utilizzare i fondi già stanziati con la manovra 2020 per dotare gli studi di medicina generale di dermatoscopi, così da consentire ai medici di base di effettuare un primo livello di valutazione e alleggerire le liste d’attesa.

Una prospettiva che trova però la netta contrarietà delle società scientifiche di dermatologia. «La prevenzione oncologica dermatologica non è un atto burocratico, ma una valutazione clinica complessa che richiede esperienza specialistica», ha affermato Davide Melandri, presidente di Adoi. «La mappatura dei nei non è una semplice fotografia ma un’analisi che integra anamnesi, valutazione clinica e riconoscimento delle lesioni sospette», ha aggiunto Domenico Piccolo, presidente di Aida. Preoccupazioni sono state espresse anche da Viviana Schiavone, vicepresidente Aida («non si possono ridurre le liste d’attesa spostando competenze specialistiche su figure non formate»), e da Cesare Massone, vicepresidente Adoi, che ha richiamato i rischi medico-legali di diagnosi errate.

Alle critiche Scotti ha replicato con un comunicato: «Nessuno screening di massa, ma aumento della capacità del primo livello di cure, integrato con i dermatologi per migliorare la prevenzione». Il segretario Fimmg ha ricordato il progetto avviato nel 2020 insieme all’Università Federico II di Napoli, che già allora dimostrò la validità di un modello di collaborazione tra medici di base e specialisti. «Con telemedicina e intelligenza artificiale i benefici sono ancora più evidenti. È il momento di usare i 235 milioni di euro stanziati per la diagnostica di primo livello e rimasti fermi nelle casse regionali», ha concluso.

Gli eventi dal vivo contrastano la solitudine

(da Sanitainformazione.it)  La partecipazione ad eventi dal vivo, come un concerto, aumenta significativamente il senso di appartenenza e aiuta a combattere la solitudine. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricerca guidato da Richard Slatcher, dell’Università della Georgia, e Julianne Holt-Lunstad, della Brigham Young University, riportato sulla rivista ‘Social Psycological and Personality Science’. La ricerca ha analizzato le esperienze di 1.551 partecipanti prima e dopo eventi quali concerti e corsi di fitness. I ricercatori hanno identificato caratteristiche chiave che promuovono maggiormente il senso di connessione sociale: la partecipazione attiva, l’essere presenti di persona, non virtualmente, partecipare con altre persone e frequentare eventi ricorrenti anziché occasioni isolate.

La partecipazione attiva è un fattore determinante –  In particolare, la partecipazione attiva, che implica interazioni e coinvolgimento diretto piuttosto che osservazione passiva, è risultata il fattore più determinante per favorire un legame sociale significativo. Lo studio sottolinea l’importanza di eventi che incoraggino la conversazione, attività pratiche o che assegnino responsabilità ai partecipanti, riducendo elementi passivi che potrebbero ostacolare il coinvolgimento. In un’epoca post-pandemica, in cui molte persone continuano a soffrire di isolamento, tali risultati offrono indicazioni concrete per promuovere legami sociali attraverso l’organizzazione di eventi comunitari, aziendali o di gruppo.

L’effetti positivo non dura oltre le 24 ore –  Nonostante l’effetto positivo immediato, la sensazione di connessione tende a non durare oltre 24 ore dopo l’evento, evidenziando la necessità di partecipazione regolare per mantenere i benefici. I ricercatori invitano a piccole e costanti scelte quotidiane, come frequentare corsi locali o fare volontariato, per costruire un senso di appartenenza duraturo. La ricerca ha importanti implicazioni pratiche per chi organizza eventi e programmi mirati a rafforzare la coesione sociale in un contesto di crescente isolamento sociale riconosciuto anche dal Surgeon General degli Stati Uniti come un’epidemia.

 

Salute: più attività fisica italiani ma ancora troppi sedentari

(da AGI)   Cresce, anche se di poco, la quota di italiani che fanno attività fisica regolarmente, tornata ai livelli pre-Covid, ma le percentuali rimangono basse, al 50% per gli adulti e al 42% per gli over 65. In leggero calo i ”sedentari”, che negli adulti passano al 27% dal 31% della rilevazione 2020-2021, mentre tra gli anziani sono il 37% (erano il 42% nel 2020-2021). Questo il quadro relativo al biennio 2023-2024 tracciato dalle sorveglianze Passi e Passi d”Argento, coordinate dall”Istituto Superiore di Sanità. Le indicazioni su cui ci si basa sono i criteri dell”Oms, che prevedono 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o 75 di attività intensa.
Nel biennio 2023-2024 tra gli adulti residenti in Italia i “fisicamente attivi” sono il 50% della popolazione (erano il 45% nella rilevazione 2020-2021), i “parzialmente attivi” il 23% e i “sedentari” il 27%. La sedentarietà è più frequente all”avanzare dell”età (22% fra i 18-34enni, raggiunge il 31% fra i 50-69enni), fra le donne (30% vs 23% fra gli uomini) e fra le persone con uno status socioeconomico più svantaggiato, per difficoltà economiche (40% fra chi ha molte difficoltà economiche ad arrivare alla fine del mese vs 23% fra chi non ne ha) o basso livello di istruzione (49% fra chi al più ha la licenza elementare vs 22% fra i laureati).
Il gradiente geografico è molto chiaro e a sfavore delle regioni meridionali (38% vs 24% nel Centro e 16% nel Nord). In Calabria la quota di sedentari supera il 50% della popolazione, superando il primato spesso detenuto dalla Campania in cui invece si osserva nel biennio 2023-2024 una riduzione significativa.

“Il cambiamento climatico è una crisi sanitaria”: la Commissione ONU lancia l’allarme

(da Univadis)    In una lettera aperta pubblicata il 13 agosto, la Commissione Pan-Europea su Clima e Salute – convocata dal ramo continentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – ha lanciato un grido d’allarme: gli eventi meteorologici estremi rappresentano una minaccia ormai vicina e vanno affrontati come una vera e propria emergenza sanitaria.

Gli effetti sulla popolazione e sul sistema sanitario

Gli effetti dei cambiamenti climatici sono drammaticamente concreti: ondate di calore sempre più intense, frequenti e letali. Solamente nel 2022 e 2023, nelle 35 nazioni europee coinvolte, si stimano oltre 100.000 decessi legati al caldo estremo, con un aumento del 30% della mortalità per calore negli ultimi vent’anni.  I decessi non appaiono sempre immediatamente attribuibili al caldo: spesso si tratta di infarti, ictus o insufficienza respiratoria. I gruppi più vulnerabili – anziani, persone con disabilità, chi vive in abitazioni inadatte, donne in gravidanza, bambini e chi lavora all’aperto – sono i più esposti.   In aggiunta all’eccesso di mortalità, gli effetti negativi si estendono alla salute mentale, alla produttività, all’agricoltura, ai costi energetici e alle infrastrutture sanitarie.  I sistemi sanitari e ospedalieri sono infatti soggetti a ulteriore stress: le emergenze si riversano sui reparti di Pronto soccorso, la salute mentale peggiora, l’efficienza cognitiva cala e persino l’infrastruttura informatica e di raffreddamento degli ospedali può arrivare al punto di rottura – come accadde durante la storica ondata di calore del 2022 in Inghilterra.

Le soluzioni ci sarebbero

“La buona notizia è che molte soluzioni per il clima sono anche soluzioni che proteggono e promuovono la salute. Prima di tutto, ridurre le emissioni significa aria più pulita e meno morti – potenzialmente salvando oltre 5 milioni di vite a livello globale grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico” scrivono gli esperti della Commissione Pan-Europea su Clima e Salute. “Espandere le aree verdi nelle città riduce l’esposizione al calore, migliora la salute mentale, abbassa le bollette energetiche e assorbe carbonio. Aumentare del 30% il verde urbano potrebbe ridurre le morti legate al caldo fino al 40%. Tutti questi sono vantaggi per la salute, l’equità e l’economia”.  Per invertire la tendenza, secondo il documento occorre ripensare i parametri oggi usati a livello internazionale per valutare ricchezza e prosperità: “Abbiamo bisogno di nuove misure di progresso che mettano salute, benessere, equità e sostenibilità al centro. Alcuni Paesi stanno già ridefinendo il successo includendo salute e clima nelle politiche economiche. Altri devono seguire, perché non possiamo esternalizzare la salute – né la nostra né quella del pianeta. Entrambe sono inestimabili. Ed entrambe sono in pericolo”.   La lettera è firmata da eminenti figure della politica, dell’ambientalismo e della sanità, fra cui la presidente della Commissione Katrín Jakobsdóttir, l’ex primo ministro dell’Islanda, Sir Andrew Haines, Sandrine Dixson‑Declève, e l’italiano Enrico Giovannini, ex ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. È la prima di una serie di iniziative annunciate per i prossimi mesi.

Dagli USA una posizione controcorrente

Questa presa di posizione arriva in un momento in cui dall’altra parte dell’Oceano Atlantico lo scontro tra la comunità scientifica e l’amministrazione Trump continua senza esclusione di colpi, dopo la pubblicazione da parte del Dipartimento dell’Energia (DoE) di un rapporto, stilato da un ristretto gruppo di ricercatori, secondo cui il riscaldamento globale sarebbe “meno dannoso economicamente di quanto si pensi comunemente”.   Secondo la rivista Nature, il rapporto punta a creare le condizioni per ribaltare una sentenza emessa nel 2007 dalla Corte Suprema secondo cui i gas serra rientrano nella categoria degli inquinanti atmosferici, che aprì la strada alla regolamentazione delle emissioni da parte dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA), avvenuta nel 2009.  “Questo piccolo rapporto è sostanzialmente concepito per sopprimere la scienza, non per sostenerla o stimolarla” ha detto a Nature Joellen Russell, oceanografa dell’Università dell’Arizona, tra gli scienziati che si sono mobilitati. Tra di loro anche il climatologo dell’Università di East Anglia Benjamin Santer, altrettanto critico: “Si tratta di una revisione della scienza e della storia. Dobbiamo reagire”.

(https://www.who.int/europe/publications/m/item/extreme-weather-events-in-the-european-region-are-a-health-emergency-not-just-a-climate-one)

Diabete, pressione alta e Hiv, uomini rischiano più delle donne

(da DottNet)   Gli uomini hanno maggiori probabilità rispetto alle donne di ammalarsi e morire a causa di tre condizioni, ipertensione, diabete e hiv, e minori probabilità di ricevere cure mediche. Lo rivela uno studio di Angela Chang dell’Università della Danimarca Meridionale, pubblicato sulla rivista PLOS Medicine. I ricercatori hanno raccolto dati sanitari globali relativi a persone per tre condizioni: ipertensione, diabete e Hiv/Aids. L’analisi ha identificato differenze significative tra i sessi in ogni fase del “percorso sanitario”, che comprende l’esposizione a un fattore di rischio, lo sviluppo della condizione, la diagnosi, il trattamento e la morte. Uomini e donne hanno ricevuto cure diverse per ipertensione, diabete e Hiv/Aids in 200, 39 e 76 paesi, rispettivamente.

Gli uomini presentano tassi di malattia e di mortalità più elevati rispetto alle donne e, in alcuni paesi, sono meno propensi a cercare assistenza sanitaria o ad aderire ai trattamenti. Nella maggior parte dei paesi, inoltre, gli uomini hanano una maggiore probabilità di fumare, mentre le donne tendono più spesso a essere obese e a praticare sesso non sicuro. La maggior parte di queste differenze non è spiegata solo dal sesso (biologia), ma da costruzioni sociali di genere – evidenziando l’importanza di adottare un approccio alla giustizia di genere per ridurre le disuguaglianze sanitarie, concludono gli esperti.

 

Etnia e colore della pelle influenzano la risposta alla vitamina D

(da Nutrienti e supplementi) La supplementazione di vitamina D è ampiamente diffusa, ma la comprensione del suo impatto clinico è ostacolata dalla variabilità individuale nella risposta. Recenti ricerche hanno evidenziato che l’etnia e il colore della pelle giocano un ruolo significativo in questa variabilità, suggerendo come un approccio “taglia unica” non sia efficace per tutti. Una revisione sistematica e meta-analisi, pubblicata di recente su ‘Nutrition reviews’, ha esplorato l’impatto dell’etnia sulla risposta alla supplementazione orale di vitamina D. I ricercatori hanno analizzato dati provenienti da 18 studi con 1.131 partecipanti, misurando i livelli ematici di 25(OH)D3.

I risultati hanno mostrato che l’etnia ha avuto un impatto significativo sui livelli sierici medi di 25(OH)D3 aggiustati per dose e Bmi rispetto al basale. In particolare, i partecipanti allo studio di etnia asiatica e bianca hanno dimostrato un aumento statisticamente più elevato dei livelli ematici di 25(OH)D3 (183 nmol/L e 173 nmol/L rispettivamente) rispetto ai partecipanti arabi e neri (37 nmol/L e 99 nmol/L).

Questi risultati sono stati ulteriormente supportati da un’analisi completa di 48 studi sulla supplementazione di vitamina D, che ha rivelato come il colore della pelle influenzi la quantità di vitamina D necessaria. La ricerca ha dimostrato che gli individui con tonalità di pelle più scure richiedono in genere circa il 30% in più di dosi di vitamina D₃ per raggiungere gli stessi aumenti nei livelli ematici di vitamina D rispetto a quelli con tonalità di pelle più chiare. Ciò implica che una dose standard potrebbe non essere sufficiente per tutti, in particolare per coloro che hanno più melanina nella pelle, lasciando potenzialmente molte persone con una carenza di vitamina D.

“L’impatto clinico di queste scoperte è considerevole, poiché sottolinea la necessità di adattare le raccomandazioni sulla vitamina D ai singoli pazienti, tenendo conto del loro background etnico e del colore della pelle”, sottolineano gli Autori. “Per i clinici, è fondamentale personalizzare i piani di supplementazione di vitamina D piuttosto che utilizzare un dosaggio uniforme. Si raccomanda di testare i livelli di vitamina D dei pazienti e di aggiustare la dose di conseguenza, prestando particolare attenzione agli individui con un contenuto più elevato di melanina nella pelle o a coloro che, per pratiche culturali, limitano l’esposizione al sole”.

(https://academic.oup.com/nutritionreviews/article-abstract/83/7/e1372/7829186?redirectedFrom=fulltext&login=false)

Medici ospedalieri con prestazioni aggiuntive, attenzione al modello Enpam

(da DottNet)    Per la maggior parte dei medici e odontoiatri dipendenti ospedalieri, una delle poche certezze, al momento della denuncia del reddito libero professionale ai fini Enpam, è sempre stata quella di osservare il punto 4 della Certificazione Unica rilasciata dall’ospedale: se risultava a zero, oppure riportava un importo inferiore a 9.000 euro, non c’era bisogno di effettuare la denuncia. Una recente nota della Fondazione accende invece un faro su una importante novità della Certificazione Unica 2025 (che riporta i redditi percepiti nel 2024): quella delle cosiddette prestazioni aggiuntive.

Questa casistica riguarda proprio quelle prestazioni, svolte su base volontaria al di fuori del normale orario di lavoro, che l’azienda “compra” ai propri dirigenti medici e che questi a loro volta eseguono in regime di intramoenia. Tale attività gode di un regime fiscale particolare, introdotto dal decreto legge 73/2024.

In particolare, l’articolo 7 stabilisce un’imposta sostitutiva del 15 per cento per Irpef, addizionali regionali e provinciali per le prestazioni previste dall’articolo 89 comma 2 del contratto collettivo nazionale 2019-2021 dell’area sanità. Vale a dire quelle richieste “in via eccezionale e temporanea” allo scopo di “ridurre le liste di attesa” e “acquisire prestazioni aggiuntive in presenza di carenza di organico”. Gli importi di cui parliamo si trovano al punto 671 della Certificazione Unica ed anche essi, costituendo attività libero professionale, non sono stati assoggettati al prelievo in favore dell’Inps, come accade invece per lo stipendio vero e proprio, riportato al punto 1 della Certificazione. 

Sono pertanto soggetti a contribuzione in favore dell’Enpam insieme con quelli relativi alla normale attività intramuraria. Per fare la denuncia all’Enpam, il reddito da dichiarare si ottiene quindi facendo la somma del punto 4 e del punto 671 della Certificazione Unica. Solo per chiarezza, è bene precisare che ai successivi punti 672 e 673 della Cu, invece, si trovano rispettivamente: l’importo delle imposte sostitutive relative a tali redditi e l’importo delle imposte sostitutive eventualmente non operate dall’azienda. Ma attenzione: gli importi riportati in questi ultimi due punti non vanno inseriti nel modello D. Può presumersi che per molti ospedalieri che hanno effettuato prestazioni aggiuntive, questa potrebbe essere la prima volta che denunciano i loro redditi all’Enpam, perché magari finora non avevano mai superato il tetto di circa 9.000 euro. Se è così, è bene che ricordino, prima della denuncia, di compilare il modulo online con cui richiedono l’aliquota super-agevolata del 2% (l’aliquota ordinaria è pari al 19,50%). Dopo la scelta, andranno a riempire gli spazi del Modello D di denuncia.

Inoltre, alla luce di questa importante novità, potrebbero esservi medici che hanno inserito nella denuncia Enpam un importo sbagliato, magari riferito al solo punto 4 della Certificazione Unica, e quindi inferiore al totale del reddito libero professionale effettivamente prodotto. Niente paura: in questo caso basta compilare un nuovo Modello D con l’importo corretto, che annullerà e sostituirà il precedente. Il Modello D va inviato entro il 5 Settembre 2025, a pena di una sanzione di 120 euro. Nel caso della rettifica di un modello inviato comunque prima della scadenza dei termini, c’è tempo fino al 31 dicembre per inviare la correzione senza alcuna sanzione, ma è sempre meglio provvedere entro la fine di settembre, per evitare modifiche nella determinazione dei pagamenti dovuti.

Epidemia obesità, sono responsabili le calorie in eccesso non la sedentarietà

(da DottNet)   L’obesità è causata da un eccessivo introito calorico più che dalla sedentarietà: è il verdetto di un lavoro apparso sui ‘Proceedings of the National Academy of Sciences’, che potrebbe porre fine all’annoso dibattito se la causa principale dell’obesità sia l’alimentazione o la mancanza di esercizio fisico.  È emerso chiaramente che la colpa dell’obesità è da attribuire a un maggiore consumo di alimenti ultra-trasformati (UPF), come wurstel e altri preparati di carne, piatti pronti e snack dolci, osservando che “la percentuale di UPF nella dieta era correlata positivamente alla percentuale di grasso corporeo”; mentre il dispendio energetico e quindi l’attività fisica c’entrano solo marginalmente.

Condotto da Amanda McGrosky, il lavoro si basa sui dati di 4.213 adulti di 18-60 anni, appartenenti a 34 popolazioni in sei continenti. I ricercatori hanno esaminato il dispendio energetico totale (TEE), il dispendio energetico da attività (AEE), il dispendio energetico basale (BEE) e due misure dell’obesità: la percentuale di grasso corporeo e l’indice di massa corporea (BMI).

I risultati sono stati classificati in gruppi in base al livello di sviluppo economico, a causa delle differenze generali nello stile di vita e nell’alimentazione tra i gruppi con diversi livelli di sviluppo economico. E’ emerso che sia il dispendio energetico totale sia il basale sono diminuiti leggermente, di circa il 6-11%, con lo sviluppo economico. È però anche emerso che l’energia bruciata con l’attività fisica risultava ancora complessivamente più alto nelle popolazioni economicamente più sviluppate, indicando che non è probabile che sia la mancanza di esercizio fisico a causare un BMI o un grasso corporeo più elevati.     I ricercatori hanno inoltre scoperto che il dispendio energetico totale è solo debolmente associato all’obesità, rappresentando circa il 10% dell’aumento dell’incidenza dell’obesità nei paesi economicamente più sviluppati.   Nonostante l’esercizio fisico non sia il principale fattore determinante dell’obesità, gli autori dello studio incoraggiano a praticarlo regolarmente, poiché è comunque fondamentale per prevenire le malattie e mantenere una migliore salute mentale.    Lo studio sottolinea anche la necessità di porre l’accento sulla riduzione delle calorie provenienti dagli alimenti altamente trasformati per contribuire ad affrontare la crisi dell’obesità.

 

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