Salute dentale. Il 6,3% degli europei non riesce a curarsi, il 4,6% in Italia

(da Quotidiano Sanità)   Nel 2024, il 6,3% delle persone di età pari o superiore a 16 anni nell’UE che necessitavano di cure odontoiatriche ha dichiarato di non essere in grado di riceverle per motivi economici, lunghe liste d'attesa o distanza dai dentisti. I dati arrivano dall’Eurostat e mostrano come, tra i paesi dell'UE, la quota di persone con bisogni di cure odontoiatriche insoddisfatti è stata più alta in Grecia (27,1%), Lettonia (16,5%) e Romania (16,2%). I valori più bassi sono stati osservati a Malta (0,4%), Germania (0,9%) e Croazia (1,1%). Emerge, tuttavia, una forte differenza tra la quota di persone a rischio di povertà che ha segnalato bisogni di cure odontoiatriche insoddisfatti (13,7%) rispetto a quella di coloro che non erano a rischio di povertà (5,1%). Un andamento simile è stato registrato in tutti i paesi dell'UE. In Italia, in particolare, la quota di over16enni che ha visto i proprio bisogni di cure odontoiatriche rimasti insoddisfatti erano pari al 4,6%, con una differenza tra coloro che erano a rischio povertà (12,5%) e coloro che non lo erano (3,3%). Le differenze più significative nella segnalazione di bisogni di cure odontoiatriche insoddisfatti sono state osservate in Romania, dove il 43,5% delle persone a rischio di povertà ha segnalato tali bisogni insoddisfatti rispetto al 12,6% tra coloro che non sono a rischio, con un divario di 30,9 punti percentuali (pp); e in Grecia, dove il 52,8% delle persone a rischio di povertà ha segnalato bisogni di cure odontoiatriche insoddisfatti rispetto al 22,7% tra coloro che non sono a rischio, con un divario di 30,1 punti percentuali. Grandi differenze sono state osservate anche in Lettonia (24,5 pp) e Portogallo (20,5 pp).   Al contrario, Germania (1,3 pp), Malta (1,5 pp) e Polonia (1,7 pp) hanno registrato i divari più ridotti tra i tassi di bisogni di cure odontoiatriche insoddisfatti tra le persone a rischio di povertà e quelle non a rischio di povertà.

Intelligenza artificiale: un’arma a doppio taglio

(da M.D.Digital) Un recente editoriale pubblicato su 'JMIR Medical Informatics' ha esaminato la rapida diffusione dell’intelligenza artificiale (Ia), dove le tecnologie progettate per automatizzare la documentazione clinica sono in grado di alleggerire il carico amministrativo degli operatori sanitari. Sebbene questi strumenti siano molto promettenti nel ridurre il burnout e nel liberare tempo per la cura dei pazienti, in quanto consentono una riduzione del tempo dedicato alla documentazione dopo l'orario di lavoro e a una migliore interazione medico-paziente, l'editoriale evidenzia preoccupazioni significative che giustificano ulteriori indagini. 

Tuttavia, gli autori avvertono che questi benefici sono bilanciati da una serie di sfide. L'editoriale evidenzia preoccupazioni persistenti sull'accuratezza e l'affidabilità delle note generate dall'intelligenza artificiale, inclusi errori, omissioni e abbagli. Solleva anche questioni etiche e legali, come i pregiudizi algoritmici, i rischi per la privacy e il potenziale di "debito cognitivo" o l'eccessiva dipendenza dall'intelligenza artificiale, che potrebbero diminuire le capacità di pensiero critico.  Sebbene l'entusiasmo per l'IA sia comprensibile, la comunità medica deve procedere con cautela e impegnarsi per una valutazione rigorosa e basata sull'evidenza. L'analisi mostra che, sebbene questi strumenti siano una soluzione promettente a un problema di lunga data, molte domande rimangono senza risposta sul loro impatto sulla sicurezza dei pazienti, sulla formazione dei medici e sui risultati a livello di sistema.

(Leung TI, et al. AI Scribes in Health Care: Balancing Transformative Potential With Responsible Integration. JMIR Med Inform 2025. doi: 10.2196/80898. PMID: 40749188; PMCID: PMC12316405.)

Inchiesta tra i colleghi cha hanno completato o stanno frequentando il Corso di Formazione Regionale per la Medicina Generale

vi saremmo molto grati se poteste far girare il seguente link fra i medici iscritti a codesto Ordine:

Come specificato nel cappello introduttivo, l' indagine è rivolta ai medici che

·                    hanno già completato il corso di formazione specifica in medicina generale; o

·                    stanno ancora frequentando il corso di formazione specifica in medicina generale;

Indipendentemente dal fatto che ora lavorino o meno come medici di assistenza primaria (medico di medicina generale, medio di continuità assistenziale, altro)

Si tratta di un' indagine conoscitiva anonima, promossa dall' ateneo di Trieste ed approvata dal rispettivo comitato etico universitario nella seduta del 17 Dicembre 2024 (Verbale N.11).

Confidando in un positivo riscontro porgo cordiali saluti

Prof. Luca Cegolon, MD, MSc, PhD

Associate Professor of Public Health Medicine

University of Trieste

via della Pietà 2

34129 Trieste

Italy

email: luca.cegolon@units.it

Il paziente crede nel Mmg che mette in pratica ciò che predica

(da Clinical Monitor)  Un team di ricercatori del Centro Accademico di Medicina Generale e Cure primarie dell’Università di Lovanio ha condotto uno studio trasversale da aprile 2023 a settembre 2023 per indagare l'influenza degli stili di vita malsani dei medici di base sull'aderenza dei pazienti alle raccomandazioni sullo stile di vita.  Hanno distribuito un questionario online attraverso piattaforme di social media, newsletter di organizzazioni di pazienti e sale d'attesa di cliniche mediche ad adulti nelle Fiandre o a Bruxelles con sufficiente conoscenza della lingua olandese. In questo studio sono stati analizzati 476 questionari compilati. Il campione comprendeva il 73.2% di donne, con un'età media di 26 anni e valutazioni soggettive di salute fisica e mentale rispettivamente di 8 e 7 su 10.  L'analisi si è concentrata su come lo stile di vita malsano di un medico di famiglia abbia influenzato la volontà dei pazienti di seguire i consigli sullo stile di vita, tra cui smettere di fumare, moderare l'uso di alcol e incrementare l'attività fisica, e ha esaminato come il giudizio percepito dal medico di base avesse influenzato l'aderenza.  I pazienti avevano meno probabilità di seguire i consigli sullo stile di vita riguardo allo stop al fumo (62.3%), all'uso di alcol (64.9%), alla vaccinazione (49.7%) e alle abitudini alimentari (51.2%) quando i medici di base mostravano comportamenti corrispondenti malsani. Inoltre, una percentuale significativa di intervistati (68.8%) ha dichiarato di essere meno propensa a seguire i consigli quando si sente giudicata. La maggior parte degli intervistati non ha riportato alcuna influenza sulla propria aderenza ai consigli sull'attività fisica, l'igiene del sonno e la gestione dello stress; tuttavia, circa un terzo era meno propenso a seguire tali consigli quando il proprio medico di famiglia non aderiva a queste raccomandazioni.   L'età ha predetto debolmente la sensazione di essere giudicati e l'aderenza, in particolare per quanto riguarda la cessazione del fumo, l'uso di alcol e i consigli di vaccinazione da parte dei medici di base con comportamenti malsani, con gli intervistati più anziani meno colpiti dagli stili di vita malsani dei medici di base rispetto a quelli più giovani. Gli intervistati con una migliore salute fisica soggettiva avevano meno probabilità di essere influenzati dai consigli sull'attività fisica dei medici di base che erano essi stessi inattivi.  "Risulta essenziale promuovere uno stile di vita sano tra i medici di base. Inoltre, gli intervistati sono meno aderenti quando si sentono giudicati dal loro medico di base. Pertanto, è importante che i consigli siano dati in modo empatico e non giudicante", hanno sottolineato i ricercatori. (Kerremans J, Schoenmakers B. Influence of GPs' unhealthy lifestyle on patients' adherence to lifestyle recommendations: a cross-sectional study in Flanders, Belgium. BJGP Open 2025. DOI: https://doi.org/10.3399/BJGPO.2024.0221

Bastano 7.000 passi al giorno per ridurre mortalità e rischio cronico

(da Doctor33)    Per anni la soglia dei 10.000 passi al giorno è stata indicata come obiettivo minimo per mantenere una buona salute. Una meta-analisi pubblicata su 'The Lancet Public Health' mette però in discussione questo riferimento e indica che circa 7.000 passi quotidiani sono sufficienti per ottenere benefici clinicamente significativi, mentre già con 4.000 passi si osservano miglioramenti rilevanti. Lo studio ha incluso 35 ricerche per un totale di oltre 16.000 adulti seguiti tra il 2014 e il 2025, analizzando otto esiti principali: mortalità per tutte le cause, cancro, malattie cardiovascolari, funzioni cognitive, cadute, salute mentale, funzionalità fisica e diabete di tipo 2. Secondo i dati, chi cammina circa 7.000 passi al giorno riduce il rischio di mortalità per tutte le cause del 47%, di malattie cardiovascolari del 25%, di demenza del 38%, di diabete del 14% e di cancro del 6%. Si osserva inoltre una riduzione delle cadute del 28% e della depressione del 22%.  Superare i 10.000 passi non comporta rischi e può aggiungere benefici ulteriori, anche se con guadagni progressivamente più limitati. Per gli autori, il conteggio dei passi rappresenta un parametro di attività fisica più facilmente monitorabile rispetto ai minuti di attività moderata o vigorosa raccomandati dalle linee guida internazionali (150-300 a settimana). “Ogni passo conta – sottolineano i ricercatori – anche piccoli incrementi possono fare la differenza, soprattutto per chi parte da livelli di attività molto bassi”. Secondo la prima autrice, Melody Ding, docente alla Sydney School of Public Health dell’Università di Sydney, l’obiettivo dei 10.000 passi “è di origine commerciale, mentre la revisione mostra che 7.000 rappresentano un target realistico e clinicamente rilevante”. Incrementi più contenuti, da 2.000 a 4.000-5.000 passi, risultano comunque benefici e possono motivare i soggetti sedentari.  Il dato rafforza il ruolo dei contapassi e dei dispositivi indossabili come strumenti di supporto al counselling motivazionale e all’aderenza ai programmi di prevenzione primaria. (https://www.thelancet.com/journals/lanpub/article/PIIS2468-2667(25)00164-1/fulltext)

Alcuni disturbi mentali sono legati a un rischio di mortalità superiore per malattie cardiache

Alcuni disturbi mentali sono legati a un rischio di mortalità superiore per malattie cardiache

(da Sanitainformazione.it)   La salute mentale è strettamente correlata a quella cardiaca. Infatti, alcune patologie come depressione, ansia, schizofrenia, disturbo bipolare e disturbo da stress post-traumatico, aumentano il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari dal 50% fino quasi al 100%, e peggiorano gli esiti di patologie cardiache preesistenti, con un aumento della mortalità tra il 60% e il 170%. Lo rivela uno studio dell’Università Emory, pubblicato su 'The Lancet Regional Health Europe'. Lo studio sottolinea inoltre una relazione bidirezionale: oltre il 40% delle persone affette da malattie cardiovascolari presenta anche problemi di salute mentale, suggellando un legame complesso e interdipendente tra queste condizioni.

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Mangiare troppo pollo amplia il rischio di tumori gastrointestinali

(da DottNet)  Secondo una nuova ricerca condotta dall’Irccs de Bellis di Castellana Grotte (Bari), anche il consumo moderato di carne di pollo potrebbe essere associato a un aumento del rischio di morte per tumori gastrointestinali. Lo studio, condotto su oltre 4.800 persone, ha rilevato che mangiare tra i 100 e i 200 grammi di pollo a settimana comporta un aumento del rischio pari al 35%. La percentuale sale al 100% se il consumo settimanale supera i 200 grammi. Il direttore scientifico dell'Istituto, Gianluigi Giannelli, ha spiegato che risultati della ricerca "sembrerebbero un po' sfatare il mito della carne di pollo come scelta salutistica rispetto alla carne rossa", precisando che "abbiamo anche dimostrato che la carne rossa aumenta il rischio di morte per tumori gastrointestinali del 23% soltanto se consumata oltre i 350 grammi la settimana". Il commissario straordinario dell’Irccs, Luigi Fruscio, ha sottolineato come l’istituto De Bellis abbia maturato negli anni una solida competenza nel campo della prevenzione, promuovendo la "dieta mediterranea come corretto stile di vita per combattere l'insorgenza di patologie croniche ed oncologiche".

Le e-cig portano indietro di 50 anni le lancette della lotta al fumo

Le e-cig portano indietro di 50 anni le lancette della lotta al fumo (da Univadis)    Le sigarette elettroniche rischiano di riportare indietro di mezzo secolo la lotta contro il fumo. Secondo uno studio longitudinale, pubblicato a fine luglio da 'Tobacco Control'il rischio di fumare tabacco per i giovani che fumano e-cig è pari a quello dei loro coetanei di 50 anni fa. Lungi dall’essere un’alternativa sicura, le e-cig non solo portano con sé rischi intrinseci per la salute, ma potrebbero anche normalizzare la pratica del fumo, portando i giovani verso le sigarette tradizionali. L’ipotesi che queste possano aiutare a smettere di fumare è controversa, ma diversi studi mostrano che in realtà l’uso di sigarette elettroniche e tradizionali non è mutualmente esclusivo, anzi, e che è più facile passare dalle sigarette elettroniche a quelle tradizionali rispetto al contrario. Ha senso dunque chiedersi se le e-cig siano un fattore di rischio per il fumo tradizionale. Dettagli e risultati dello studio Lo studio ha attinto da tre coorti nazionali britanniche: il National Child Development Study (NCDS) che segue 11.969 individui nati nel 1958, il British Cohort Study (BCS) con 6.222 partecipanti nati nel 1970 e il Millennium Cohort Study (MCS) che include 9.733 giovani nati tra il 2000 e il 2002. I ricercatori hanno valutato la prevalenza dell’abitudine del fumo rispettivamente nel 1974, 1986 e 2018, quando i partecipanti di ciascuna coorte avevano 16-17 anni. I fattori di rischio includevano caratteristiche individuali come il consumo di alcol, l'impegno scolastico, le capacità verbali e i comportamenti esternalizzanti riportati dai genitori. A livello familiare, lo studio ha considerato l'occupazione paterna (categorizzata in disoccupato/assente, manuale/autonomo, o professionale/manageriale), l'età in cui la madre ha lasciato l'istruzione a tempo pieno, e l'uso di tabacco da parte dei genitori, incluso (separatamente) quello della madre durante la gravidanza. Nella coorte più recente è stato possibile tenere conto anche dell'uso di sigarette elettroniche (mai usate, uso passato/sperimentale o uso corrente). Lo studio conferma che, in generale, la prevalenza del fumo di tabacco tra gli adolescenti si è ridotta di un terzo nel giro degli ultimi 50 anni: dal 33% del 1974 al 25% nel 1986, fino al 12% nel 2018. Molti fattori di rischio mantengono associazioni simili attraverso le generazioni: il consumo di alcol aumenta le probabilità di fumare di 2,87 volte nella coorte NCDS, 4,37 nella BCS e 3,15 nella MCS, per esempio. Ma la prevalenza dei fattori di rischio, in parallelo, spesso è calata: per esempio, la percentuale di giovani che avevano consumato alcol entro i 16-17 anni è scesa dal 94 all'83%; l’età media in cui le madri hanno lasciato l'istruzione è aumentata da 15,5 a 17,7 anni, mentre tra i genitori la prevalenza di fumatori è crollata dal 72 al 27%. Nella coorte più recente, l’unica esposta da adolescente alle e-cig, l'11% dei giovani ne riferiva l’uso corrente, il 41% un uso passato o sperimentale, e il 48% non aveva mai svapato. Ma, mentre i giovani che non hanno mai svapato hanno una probabilità di fumare bassissima (1,4%), la probabilità per quelli che svapano correntemente raggiunge il 32,6%, valore paragonabile alla popolazione del 1974. In pratica, per chi non usa e-cig è estremamente improbabile diventare fumatore, mentre la popolazione che le usa ha un rischio pari a quello generale della popolazione di oltre cinquanta anni fa. Cosa si può fare Di per sé i dati non consentono di costruire una relazione causale. Le associazioni osservate potrebbero riflettere sia un effetto del vaping come introduzione al fumo, sia una propensione condivisa verso entrambi i comportamenti in sottogruppi ad alto rischio. È comunque legittimo sospettare, a livello precauzionale, che i successi ottenuti nella riduzione del fumo giovanile attraverso decenni di politiche di controllo del tabacco possano venire erosi dal diffondersi delle e-cig: "È possibile che giovani, storicamente considerati a basso rischio per il consumo di sigarette tradizionali diventino a rischio a causa della loro esposizione alla nicotina, sperimentando o utilizzando le sigarette elettroniche", scrivono gli autori dello studio. Secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS) del 2024, in Italia un terzo degli adolescenti fuma o svapa; di questi oltre il 60% usa contemporaneamente più forme di prodotti contenenti nicotina, tra sigarette tradizionali, tabacco riscaldato o e-cig. L’uso di sigarette tradizionali è ancora ampio, sebbene in calo: nella fascia 15-16 anni, i dati ESPAD del 2024 mostrano una prevalenza del 23,6%. “Il marketing sempre più aggressivo nei confronti di questa fascia di età dei prodotti a base di nicotina, che passa da strumenti come il packaging e l’aspetto esteriore dei dispositivi sempre più accattivante all’ideazione di sapori fruttati più vicini al gusto dei giovani sta facendo sì che l’uso sia sempre più diffuso”, affermò all’epoca Simona Pichini del Centro nazionale dipendenze e doping dell’ISS. Negli ultimi anni il marketing del tabacco e delle e-cig riesce facilmente a raggiungere i giovani tramite i social media, come Instagram e sfrutta un'ampia rete di influencer. Il quadro italiano presenta alcuni punti critici. Secondo i dati ESPAD, sebbene si fumi meno di venti anni fa, a 16 anni fuma comunque quasi il 15% dei sedicenni; oltre il 20% delle sedicenni, e il 40 per cento degli utilizzatori di e-cig ha iniziato sotto i 15 anni di età. Quasi il 20% degli studenti ha usato e-cig nell’ultimo mese: un dato in rapidissima ascesa (era il 7% nel 2018). (https://tobaccocontrol.bmj.com/content/early/2025/07/23/tc-2024-059212)

Studio ISS, morbillo: quasi un italiano su 10 è a rischio infezione

(da DottNet)   Quasi un italiano su dieci - il 9,2% - non ha l'immunità al morbillo e potrebbe contrarre l'infezione se incontrasse il virus. La percentuale è più alta tra i giovani adulti tra 20 e 40 anni, che costituiscono un gruppo particolarmente a rischio e contribuiscono in maniera determinante alla diffusione dei contagi. Sono i dati che emergono da uno studio coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità e dalla Fondazione Bruno Kessler pubblicato dalla rivista The Lancet Infectious Diseases.    Lo studio ha analizzato i quasi 15 mila casi di morbillo (con 14 morti) che sono stati notificati al sistema nazionale di sorveglianza integrata morbillo e rosolia, tra il 2013 e il 2022. La fascia di età in cui l'incidenza dell'infezione è più alta è quella dei bambini sotto i 5 anni, ma oltre la metà dei casi ha riguardato giovani adulti, tra i 20 e i 39 anni.  Circa 9 infezioni su 10 hanno riguardato persone non vaccinate. Queste ultime, inoltre, sono anche responsabili dell'88,9% dei contagi secondari (cioè quelli che seguono il cosiddetto 'caso indice' nei focolai). Un terzo degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Inoltre, il 35,5% dei contagi è avvenuto in ambito familiare.  L'analisi ha anche stimato la quota di italiani suscettibile al morbillo nel 2025: si tratta del 9,2% della popolazione generale, l'11,8% nella fascia con meno di 20 anni. Il dato però, ha una grande variabilità regionale, con il centro-nord che tende ad avere valori di immunità maggiori.   "Gli adulti non vaccinati contribuiscono in maniera sostanziale alla trasmissione del morbillo in Italia", scrivono gli autori nelle conclusioni dello studio. "Esiste una grande eterogeneità regionale nell'immunità: alcune regioni mostrano basse coperture vaccinali nei bambini, mentre altre hanno una grande proporzione di adulti suscettibili. Questi risultati enfatizzano il bisogno di strategie vaccinali mirate, comprese campagne di recupero rivolte agli adulti", concludono. Ecco le conclusioni principali: - La maggior parte (88,9%) delle infezioni secondarie (quelle che seguono il cosiddetto ‘caso indice’ nei focolai) è stata causata da individui non vaccinati. Solo l’1,1% delle infezioni sono avvenute tra persone entrambe vaccinate con almeno una dose. - Un terzo (33,3%) degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Il 35,5% dei contagi secondari è avvenuto in ambito familiare. - Nel 2025 il 9,2% della popolazione italiana è suscettibile al morbillo, e solo l’88,2% dei giovani sotto i 20 anni è immune. Il dato ha una grande variabilità regionale: per quanto riguarda la popolazione generale, le regioni del centro-nord registrano le percentuali più alte di suscettibili, mentre tra i giovani sotto i 20 anni la provincia di Bolzano e la Calabria risultano essere quelle con più soggetti suscettibili. - Nonostante alcune regioni abbiano raggiunto alti tassi di vaccinazione nei bambini, grazie alla legge sull’obbligo introdotta nel 2017, l’analisi indica che non necessariamente questo si traduce in un minor rischio di trasmissione, soprattutto per la presenza di ampie sacche di adulti non immunizzati. - Il numero di riproduzione stimato per il 2025 varia da 1,31 a 1,78 in tutte le regioni, in linea con la trasmissibilità stimata nei focolai del decennio precedente.

Mappatura dei nei, Fimmg e dermatologi a confronto sul ruolo dei medici di famiglia

(da Doctor33)   La vicenda della mappatura dei nei è esplosa in Veneto dopo che alcune Ulss hanno chiarito che l’esame non è più prescrivibile come prestazione autonoma a carico del Servizio sanitario nazionale. Dal 2025, infatti, la nuova lista dei Lea prevede che la mappatura possa avvenire solo nell’ambito di una prima visita dermatologica, con ticket fissato a 25,40 euro. Per controlli preventivi sistematici, invece, i cittadini dovranno rivolgersi al privato. Nei giorni scorsi il segretario generale della Fimmg, Silvestro Scotti, in un’intervista a ilfattoquotidiano.it ha chiarito che «il nuovo nomenclatore non ha eliminato la mappatura, ma l’ha inclusa nella prima visita dermatologica, migliorando appropriatezza e costi». Secondo Scotti, tuttavia, lo screening preventivo dei nei resta un punto debole del sistema: «Dire che non sia efficace è sbagliato. È uno strumento importante per la diagnosi precoce del melanoma». Da qui la proposta di utilizzare i fondi già stanziati con la manovra 2020 per dotare gli studi di medicina generale di dermatoscopi, così da consentire ai medici di base di effettuare un primo livello di valutazione e alleggerire le liste d’attesa. Una prospettiva che trova però la netta contrarietà delle società scientifiche di dermatologia. «La prevenzione oncologica dermatologica non è un atto burocratico, ma una valutazione clinica complessa che richiede esperienza specialistica», ha affermato Davide Melandri, presidente di Adoi. «La mappatura dei nei non è una semplice fotografia ma un’analisi che integra anamnesi, valutazione clinica e riconoscimento delle lesioni sospette», ha aggiunto Domenico Piccolo, presidente di Aida. Preoccupazioni sono state espresse anche da Viviana Schiavone, vicepresidente Aida («non si possono ridurre le liste d’attesa spostando competenze specialistiche su figure non formate»), e da Cesare Massone, vicepresidente Adoi, che ha richiamato i rischi medico-legali di diagnosi errate. Alle critiche Scotti ha replicato con un comunicato: «Nessuno screening di massa, ma aumento della capacità del primo livello di cure, integrato con i dermatologi per migliorare la prevenzione». Il segretario Fimmg ha ricordato il progetto avviato nel 2020 insieme all’Università Federico II di Napoli, che già allora dimostrò la validità di un modello di collaborazione tra medici di base e specialisti. «Con telemedicina e intelligenza artificiale i benefici sono ancora più evidenti. È il momento di usare i 235 milioni di euro stanziati per la diagnostica di primo livello e rimasti fermi nelle casse regionali», ha concluso.

Gli eventi dal vivo contrastano la solitudine

(da Sanitainformazione.it)  La partecipazione ad eventi dal vivo, come un concerto, aumenta significativamente il senso di appartenenza e aiuta a combattere la solitudine. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricerca guidato da Richard Slatcher, dell’Università della Georgia, e Julianne Holt-Lunstad, della Brigham Young University, riportato sulla rivista 'Social Psycological and Personality Science'. La ricerca ha analizzato le esperienze di 1.551 partecipanti prima e dopo eventi quali concerti e corsi di fitness. I ricercatori hanno identificato caratteristiche chiave che promuovono maggiormente il senso di connessione sociale: la partecipazione attiva, l’essere presenti di persona, non virtualmente, partecipare con altre persone e frequentare eventi ricorrenti anziché occasioni isolate. La partecipazione attiva è un fattore determinante -  In particolare, la partecipazione attiva, che implica interazioni e coinvolgimento diretto piuttosto che osservazione passiva, è risultata il fattore più determinante per favorire un legame sociale significativo. Lo studio sottolinea l’importanza di eventi che incoraggino la conversazione, attività pratiche o che assegnino responsabilità ai partecipanti, riducendo elementi passivi che potrebbero ostacolare il coinvolgimento. In un’epoca post-pandemica, in cui molte persone continuano a soffrire di isolamento, tali risultati offrono indicazioni concrete per promuovere legami sociali attraverso l’organizzazione di eventi comunitari, aziendali o di gruppo. L’effetti positivo non dura oltre le 24 ore -  Nonostante l’effetto positivo immediato, la sensazione di connessione tende a non durare oltre 24 ore dopo l’evento, evidenziando la necessità di partecipazione regolare per mantenere i benefici. I ricercatori invitano a piccole e costanti scelte quotidiane, come frequentare corsi locali o fare volontariato, per costruire un senso di appartenenza duraturo. La ricerca ha importanti implicazioni pratiche per chi organizza eventi e programmi mirati a rafforzare la coesione sociale in un contesto di crescente isolamento sociale riconosciuto anche dal Surgeon General degli Stati Uniti come un’epidemia.  

Salute: più attività fisica italiani ma ancora troppi sedentari

(da AGI)   Cresce, anche se di poco, la quota di italiani che fanno attività fisica regolarmente, tornata ai livelli pre-Covid, ma le percentuali rimangono basse, al 50% per gli adulti e al 42% per gli over 65. In leggero calo i ''sedentari'', che negli adulti passano al 27% dal 31% della rilevazione 2020-2021, mentre tra gli anziani sono il 37% (erano il 42% nel 2020-2021). Questo il quadro relativo al biennio 2023-2024 tracciato dalle sorveglianze Passi e Passi d''Argento, coordinate dall''Istituto Superiore di Sanità. Le indicazioni su cui ci si basa sono i criteri dell''Oms, che prevedono 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o 75 di attività intensa. Nel biennio 2023-2024 tra gli adulti residenti in Italia i "fisicamente attivi" sono il 50% della popolazione (erano il 45% nella rilevazione 2020-2021), i "parzialmente attivi" il 23% e i "sedentari" il 27%. La sedentarietà è più frequente all''avanzare dell''età (22% fra i 18-34enni, raggiunge il 31% fra i 50-69enni), fra le donne (30% vs 23% fra gli uomini) e fra le persone con uno status socioeconomico più svantaggiato, per difficoltà economiche (40% fra chi ha molte difficoltà economiche ad arrivare alla fine del mese vs 23% fra chi non ne ha) o basso livello di istruzione (49% fra chi al più ha la licenza elementare vs 22% fra i laureati). Il gradiente geografico è molto chiaro e a sfavore delle regioni meridionali (38% vs 24% nel Centro e 16% nel Nord). In Calabria la quota di sedentari supera il 50% della popolazione, superando il primato spesso detenuto dalla Campania in cui invece si osserva nel biennio 2023-2024 una riduzione significativa.

“Il cambiamento climatico è una crisi sanitaria”: la Commissione ONU lancia l’allarme

(da Univadis)    In una lettera aperta pubblicata il 13 agosto, la Commissione Pan-Europea su Clima e Salute – convocata dal ramo continentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – ha lanciato un grido d’allarme: gli eventi meteorologici estremi rappresentano una minaccia ormai vicina e vanno affrontati come una vera e propria emergenza sanitaria. Gli effetti sulla popolazione e sul sistema sanitario Gli effetti dei cambiamenti climatici sono drammaticamente concreti: ondate di calore sempre più intense, frequenti e letali. Solamente nel 2022 e 2023, nelle 35 nazioni europee coinvolte, si stimano oltre 100.000 decessi legati al caldo estremo, con un aumento del 30% della mortalità per calore negli ultimi vent’anni.  I decessi non appaiono sempre immediatamente attribuibili al caldo: spesso si tratta di infarti, ictus o insufficienza respiratoria. I gruppi più vulnerabili – anziani, persone con disabilità, chi vive in abitazioni inadatte, donne in gravidanza, bambini e chi lavora all’aperto – sono i più esposti.   In aggiunta all’eccesso di mortalità, gli effetti negativi si estendono alla salute mentale, alla produttività, all’agricoltura, ai costi energetici e alle infrastrutture sanitarie.  I sistemi sanitari e ospedalieri sono infatti soggetti a ulteriore stress: le emergenze si riversano sui reparti di Pronto soccorso, la salute mentale peggiora, l’efficienza cognitiva cala e persino l’infrastruttura informatica e di raffreddamento degli ospedali può arrivare al punto di rottura – come accadde durante la storica ondata di calore del 2022 in Inghilterra. Le soluzioni ci sarebbero “La buona notizia è che molte soluzioni per il clima sono anche soluzioni che proteggono e promuovono la salute. Prima di tutto, ridurre le emissioni significa aria più pulita e meno morti – potenzialmente salvando oltre 5 milioni di vite a livello globale grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico” scrivono gli esperti della Commissione Pan-Europea su Clima e Salute. “Espandere le aree verdi nelle città riduce l’esposizione al calore, migliora la salute mentale, abbassa le bollette energetiche e assorbe carbonio. Aumentare del 30% il verde urbano potrebbe ridurre le morti legate al caldo fino al 40%. Tutti questi sono vantaggi per la salute, l’equità e l’economia”.  Per invertire la tendenza, secondo il documento occorre ripensare i parametri oggi usati a livello internazionale per valutare ricchezza e prosperità: “Abbiamo bisogno di nuove misure di progresso che mettano salute, benessere, equità e sostenibilità al centro. Alcuni Paesi stanno già ridefinendo il successo includendo salute e clima nelle politiche economiche. Altri devono seguire, perché non possiamo esternalizzare la salute – né la nostra né quella del pianeta. Entrambe sono inestimabili. Ed entrambe sono in pericolo”.   La lettera è firmata da eminenti figure della politica, dell’ambientalismo e della sanità, fra cui la presidente della Commissione Katrín Jakobsdóttir, l'ex primo ministro dell’Islanda, Sir Andrew Haines, Sandrine Dixson‑Declève, e l’italiano Enrico Giovannini, ex ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. È la prima di una serie di iniziative annunciate per i prossimi mesi. Dagli USA una posizione controcorrente Questa presa di posizione arriva in un momento in cui dall’altra parte dell’Oceano Atlantico lo scontro tra la comunità scientifica e l’amministrazione Trump continua senza esclusione di colpi, dopo la pubblicazione da parte del Dipartimento dell’Energia (DoE) di un rapporto, stilato da un ristretto gruppo di ricercatori, secondo cui il riscaldamento globale sarebbe “meno dannoso economicamente di quanto si pensi comunemente”.   Secondo la rivista Nature, il rapporto punta a creare le condizioni per ribaltare una sentenza emessa nel 2007 dalla Corte Suprema secondo cui i gas serra rientrano nella categoria degli inquinanti atmosferici, che aprì la strada alla regolamentazione delle emissioni da parte dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA), avvenuta nel 2009.  “Questo piccolo rapporto è sostanzialmente concepito per sopprimere la scienza, non per sostenerla o stimolarla” ha detto a Nature Joellen Russell, oceanografa dell’Università dell’Arizona, tra gli scienziati che si sono mobilitati. Tra di loro anche il climatologo dell’Università di East Anglia Benjamin Santer, altrettanto critico: “Si tratta di una revisione della scienza e della storia. Dobbiamo reagire”. (https://www.who.int/europe/publications/m/item/extreme-weather-events-in-the-european-region-are-a-health-emergency-not-just-a-climate-one)

Diabete, pressione alta e Hiv, uomini rischiano più delle donne

(da DottNet)   Gli uomini hanno maggiori probabilità rispetto alle donne di ammalarsi e morire a causa di tre condizioni, ipertensione, diabete e hiv, e minori probabilità di ricevere cure mediche. Lo rivela uno studio di Angela Chang dell'Università della Danimarca Meridionale, pubblicato sulla rivista PLOS Medicine. I ricercatori hanno raccolto dati sanitari globali relativi a persone per tre condizioni: ipertensione, diabete e Hiv/Aids. L'analisi ha identificato differenze significative tra i sessi in ogni fase del "percorso sanitario", che comprende l'esposizione a un fattore di rischio, lo sviluppo della condizione, la diagnosi, il trattamento e la morte. Uomini e donne hanno ricevuto cure diverse per ipertensione, diabete e Hiv/Aids in 200, 39 e 76 paesi, rispettivamente. Gli uomini presentano tassi di malattia e di mortalità più elevati rispetto alle donne e, in alcuni paesi, sono meno propensi a cercare assistenza sanitaria o ad aderire ai trattamenti. Nella maggior parte dei paesi, inoltre, gli uomini hanano una maggiore probabilità di fumare, mentre le donne tendono più spesso a essere obese e a praticare sesso non sicuro. La maggior parte di queste differenze non è spiegata solo dal sesso (biologia), ma da costruzioni sociali di genere - evidenziando l'importanza di adottare un approccio alla giustizia di genere per ridurre le disuguaglianze sanitarie, concludono gli esperti.  

Etnia e colore della pelle influenzano la risposta alla vitamina D

(da Nutrienti e supplementi) La supplementazione di vitamina D è ampiamente diffusa, ma la comprensione del suo impatto clinico è ostacolata dalla variabilità individuale nella risposta. Recenti ricerche hanno evidenziato che l'etnia e il colore della pelle giocano un ruolo significativo in questa variabilità, suggerendo come un approccio "taglia unica" non sia efficace per tutti. Una revisione sistematica e meta-analisi, pubblicata di recente su 'Nutrition reviews', ha esplorato l'impatto dell'etnia sulla risposta alla supplementazione orale di vitamina D. I ricercatori hanno analizzato dati provenienti da 18 studi con 1.131 partecipanti, misurando i livelli ematici di 25(OH)D3. I risultati hanno mostrato che l'etnia ha avuto un impatto significativo sui livelli sierici medi di 25(OH)D3 aggiustati per dose e Bmi rispetto al basale. In particolare, i partecipanti allo studio di etnia asiatica e bianca hanno dimostrato un aumento statisticamente più elevato dei livelli ematici di 25(OH)D3 (183 nmol/L e 173 nmol/L rispettivamente) rispetto ai partecipanti arabi e neri (37 nmol/L e 99 nmol/L). Questi risultati sono stati ulteriormente supportati da un'analisi completa di 48 studi sulla supplementazione di vitamina D, che ha rivelato come il colore della pelle influenzi la quantità di vitamina D necessaria. La ricerca ha dimostrato che gli individui con tonalità di pelle più scure richiedono in genere circa il 30% in più di dosi di vitamina D₃ per raggiungere gli stessi aumenti nei livelli ematici di vitamina D rispetto a quelli con tonalità di pelle più chiare. Ciò implica che una dose standard potrebbe non essere sufficiente per tutti, in particolare per coloro che hanno più melanina nella pelle, lasciando potenzialmente molte persone con una carenza di vitamina D. “L'impatto clinico di queste scoperte è considerevole, poiché sottolinea la necessità di adattare le raccomandazioni sulla vitamina D ai singoli pazienti, tenendo conto del loro background etnico e del colore della pelle”, sottolineano gli Autori. “Per i clinici, è fondamentale personalizzare i piani di supplementazione di vitamina D piuttosto che utilizzare un dosaggio uniforme. Si raccomanda di testare i livelli di vitamina D dei pazienti e di aggiustare la dose di conseguenza, prestando particolare attenzione agli individui con un contenuto più elevato di melanina nella pelle o a coloro che, per pratiche culturali, limitano l'esposizione al sole”. (https://academic.oup.com/nutritionreviews/article-abstract/83/7/e1372/7829186?redirectedFrom=fulltext&login=false)

Medici ospedalieri con prestazioni aggiuntive, attenzione al modello Enpam

(da DottNet)    Per la maggior parte dei medici e odontoiatri dipendenti ospedalieri, una delle poche certezze, al momento della denuncia del reddito libero professionale ai fini Enpam, è sempre stata quella di osservare il punto 4 della Certificazione Unica rilasciata dall’ospedale: se risultava a zero, oppure riportava un importo inferiore a 9.000 euro, non c’era bisogno di effettuare la denuncia. Una recente nota della Fondazione accende invece un faro su una importante novità della Certificazione Unica 2025 (che riporta i redditi percepiti nel 2024): quella delle cosiddette prestazioni aggiuntive. Questa casistica riguarda proprio quelle prestazioni, svolte su base volontaria al di fuori del normale orario di lavoro, che l’azienda "compra" ai propri dirigenti medici e che questi a loro volta eseguono in regime di intramoenia. Tale attività gode di un regime fiscale particolare, introdotto dal decreto legge 73/2024. In particolare, l’articolo 7 stabilisce un’imposta sostitutiva del 15 per cento per Irpef, addizionali regionali e provinciali per le prestazioni previste dall’articolo 89 comma 2 del contratto collettivo nazionale 2019-2021 dell’area sanità. Vale a dire quelle richieste "in via eccezionale e temporanea" allo scopo di "ridurre le liste di attesa" e "acquisire prestazioni aggiuntive in presenza di carenza di organico". Gli importi di cui parliamo si trovano al punto 671 della Certificazione Unica ed anche essi, costituendo attività libero professionale, non sono stati assoggettati al prelievo in favore dell’Inps, come accade invece per lo stipendio vero e proprio, riportato al punto 1 della Certificazione.  Sono pertanto soggetti a contribuzione in favore dell’Enpam insieme con quelli relativi alla normale attività intramuraria. Per fare la denuncia all’Enpam, il reddito da dichiarare si ottiene quindi facendo la somma del punto 4 e del punto 671 della Certificazione Unica. Solo per chiarezza, è bene precisare che ai successivi punti 672 e 673 della Cu, invece, si trovano rispettivamente: l’importo delle imposte sostitutive relative a tali redditi e l’importo delle imposte sostitutive eventualmente non operate dall’azienda. Ma attenzione: gli importi riportati in questi ultimi due punti non vanno inseriti nel modello D. Può presumersi che per molti ospedalieri che hanno effettuato prestazioni aggiuntive, questa potrebbe essere la prima volta che denunciano i loro redditi all’Enpam, perché magari finora non avevano mai superato il tetto di circa 9.000 euro. Se è così, è bene che ricordino, prima della denuncia, di compilare il modulo online con cui richiedono l’aliquota super-agevolata del 2% (l’aliquota ordinaria è pari al 19,50%). Dopo la scelta, andranno a riempire gli spazi del Modello D di denuncia. Inoltre, alla luce di questa importante novità, potrebbero esservi medici che hanno inserito nella denuncia Enpam un importo sbagliato, magari riferito al solo punto 4 della Certificazione Unica, e quindi inferiore al totale del reddito libero professionale effettivamente prodotto. Niente paura: in questo caso basta compilare un nuovo Modello D con l’importo corretto, che annullerà e sostituirà il precedente. Il Modello D va inviato entro il 5 Settembre 2025, a pena di una sanzione di 120 euro. Nel caso della rettifica di un modello inviato comunque prima della scadenza dei termini, c’è tempo fino al 31 dicembre per inviare la correzione senza alcuna sanzione, ma è sempre meglio provvedere entro la fine di settembre, per evitare modifiche nella determinazione dei pagamenti dovuti.

Epidemia obesità, sono responsabili le calorie in eccesso non la sedentarietà

(da DottNet)   L'obesità è causata da un eccessivo introito calorico più che dalla sedentarietà: è il verdetto di un lavoro apparso sui 'Proceedings of the National Academy of Sciences', che potrebbe porre fine all'annoso dibattito se la causa principale dell'obesità sia l'alimentazione o la mancanza di esercizio fisico.  È emerso chiaramente che la colpa dell'obesità è da attribuire a un maggiore consumo di alimenti ultra-trasformati (UPF), come wurstel e altri preparati di carne, piatti pronti e snack dolci, osservando che "la percentuale di UPF nella dieta era correlata positivamente alla percentuale di grasso corporeo"; mentre il dispendio energetico e quindi l'attività fisica c'entrano solo marginalmente. Condotto da Amanda McGrosky, il lavoro si basa sui dati di 4.213 adulti di 18-60 anni, appartenenti a 34 popolazioni in sei continenti. I ricercatori hanno esaminato il dispendio energetico totale (TEE), il dispendio energetico da attività (AEE), il dispendio energetico basale (BEE) e due misure dell'obesità: la percentuale di grasso corporeo e l'indice di massa corporea (BMI). I risultati sono stati classificati in gruppi in base al livello di sviluppo economico, a causa delle differenze generali nello stile di vita e nell'alimentazione tra i gruppi con diversi livelli di sviluppo economico. E' emerso che sia il dispendio energetico totale sia il basale sono diminuiti leggermente, di circa il 6-11%, con lo sviluppo economico. È però anche emerso che l'energia bruciata con l'attività fisica risultava ancora complessivamente più alto nelle popolazioni economicamente più sviluppate, indicando che non è probabile che sia la mancanza di esercizio fisico a causare un BMI o un grasso corporeo più elevati.     I ricercatori hanno inoltre scoperto che il dispendio energetico totale è solo debolmente associato all'obesità, rappresentando circa il 10% dell'aumento dell'incidenza dell'obesità nei paesi economicamente più sviluppati.   Nonostante l'esercizio fisico non sia il principale fattore determinante dell'obesità, gli autori dello studio incoraggiano a praticarlo regolarmente, poiché è comunque fondamentale per prevenire le malattie e mantenere una migliore salute mentale.    Lo studio sottolinea anche la necessità di porre l'accento sulla riduzione delle calorie provenienti dagli alimenti altamente trasformati per contribuire ad affrontare la crisi dell'obesità.  
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