Vuoti di memoria: “Stress, invecchiamento o Alzheimer precoce?”

(da SanitàInformazione.it)   Analisi matematiche e EEG (elettroencefalogramma) personalizzato potrebbero offrire una svolta per la diagnosi precoce dell’Alzheimer senza l’utilizzo di mezzi più invasivi. Lo dimostra una ricerca condotta dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, insieme all’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi e all’Università di Firenze, e pubblicata su 'Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring' Un nuovo passo verso l’identificazione precoce Spesso, confondere normali vuoti di memoria o amnesie transitorie, legate allo stress o all’età, con i primi sintomi dell’Alzheimer può ritardare l’accesso alle cure. Per questo il gruppo, guidato da Alberto Mazzoni della Scuola Sant’Anna, ha ideato un metodo innovativo: un modello matematico del cervello che interpreta i segnali EEG a riposo per predire, con accuratezza crescente, la biomarkerizzazione del liquido cerebrospinale (CSF). “Abbiamo utilizzato un modello matematico che descrive il cambiamento dell’attività del cervello al progredire dell’Alzheimer. Combinando EEG e analisi personalizzate, siamo riusciti a capire quali di loro fossero a rischio di sviluppare l’Alzheimer”, spiega Lorenzo Gaetano Amato, dottorando in biorobotica e primo autore dello studio. Lo studio Il metodo è stato applicato su 124 persone (tra questi 86 avevano disturbi cognitivi lievi soggettivi), consentendo di predire con l’88 % di accuratezza il risultato del test CSF basandosi solo sull’EEG. In tutti i sette casi di conversione a declino cognitivo, il modello ha anticipato correttamente l’evento. “La tecnologia è promettente e può essere un ulteriore strumento per aiutare nella diagnosi, identificando l’Alzheimer quando i segni clinici sono ancora lieve. Consente l’accesso a trattamenti innovativi che potrebbero rallentare la progressione”, aggiunge Valentina Bessi, responsabile del Centro Demenze di Careggi, questo tipo di tecnologia rappresenta un grande potenziale. Effettivamente, l’approccio emergente si inserisce nel filone dei “digital twin” – gemelli digitali del cervello – che modellano parametri come degenerazione sinaptica e connessioni globali, tracciando la progressione neurodegenerativa in modo personalizzato. Verso una diagnosi accessibile e tempestiva Nuove conferme arrivano anche da un lavoro pubblicato il 5 aprile 2025 su 'Alzheimer’s Research & Therapy', a firma di Amato e colleghi, dove il modello è stato esteso a 145 soggetti, tra controlli sani e persone a diverso stadio di declino cognitivo.  Il nuovo studio ha dimostrato che il modello distingue con precisione crescente soggetti affetti da deterioramento lieve (MCI) da quelli sani, e individua con più accuratezza (87 %) i marker biologici presenti nel liquido cerebrospinale rispetto ai metodi EEG tradizionali (58 %). Ha anche previsto casi di conversione cognitiva futura con altissima fidelità. Verso una diagnosi accessibile e tempestiva. Questa linea di ricerca apre la porta a un approccio diagnostico che combina economicità, non invasività e capacità predittiva, elementi essenziali per uno screening diffuso. Come evidenziano gli stessi esperti della Sant’Anna, questi strumenti “potenzialmente molto più semplici da utilizzare per ospedali e pazienti rispetto ai metodi attualmente in uso”. (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38371358/       https://alzres.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13195-025-01765-z )

Diabete: arriva la prima insulina settimanale al mondo. Italia prima in Europa ad averla resa disponibile con il Ssn, da 365 iniezioni l’anno si passa a 52

Un'innovazione che è stata considerata una priorità di salute per il Paese sia dalle autorità sanitarie che dalla comunità scientifica. Il primato italiano nel completamento del processo autorizzativo per l'accesso a questa terapia, a meno di 1 anno dalla sua approvazione in Europa. Leggi L'articolo completo al LINK https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=130194&fr=n  

Fumo nemico delle articolazioni: aumenta il rischio d’insorgenza e la gravità di molte malattie reumatologiche

(da DottNet)    Se l’associazione con patologie cardiovascolari, polmonari e diversi tipi di tumore è ormai cosa nota, forse non tutti sanno che il fumo è anche un importante fattore di rischio per la comparsa e la progressione di molte malattie reumatologiche. In occasione della Giornata Mondiale senza Tabacco (31 maggio), la Società Italiana di Reumatologia (SIR) richiama l’attenzione sul legame pericoloso, e spesso sottovalutato dagli stessi medici, tra il consumo di sigarette e lo sviluppo di artrite reumatoide, lupus, vasculiti, osteoporosi e altre condizioni caratterizzate dall'infiammazione di articolazioni, muscoli e organi interni. Il fumo, infatti, stimola una risposta infiammatoria sistemica e favorisce la produzione di autoanticorpi, alterando il sistema immunitario e creando terreno fertile per l’insorgenza di patologie autoimmuni e croniche. "Il caso dell’artrite reumatoide è il più eclatante", afferma il professor Andrea Doria, presidente SIR. "Si ritiene che tra il 15 e il 35% delle nuove diagnosi sia dovuto al tabacco; percentuale che sale fino al 50% tra i soggetti con predisposizione genetica alla malattia. In queste persone il sistema immunitario prende erroneamente di mira un tipo particolare di proteine, dette ‘citrullinate’, prodotto naturale di alcune fasi dell’infiammazione, rilasciando specifici anticorpi. Il fumo acuisce questa alterata risposta immunitaria a livello delle vie aree superiori, perché causa infiammazione, aumento delle proteine citrullinate e quindi di anticorpi anti-citrullina, che sono il biomarcatore proprio dell’artrite reumatoide".   "Anche il lupus eritematoso sistemico (LES) – prosegue l’esperto – è fortemente correlato con il consumo di tabacco: il rischio di sviluppare la malattia aumenta del 50% nei fumatori, soprattutto in chi è positivo agli anticorpi anti-DNA nativo. Il fumo, oltre a indurre ossidazione, alterando il DNA e facilitando la formazione di anticorpi diretti contro di esso, inibisce la fagocitosi, processo che permetterebbe di eliminare tali anticorpi. E sono molte altre le malattie reumatologiche la cui insorgenza e la cui gravità possono essere favorite dall’abitudine alle sigarette, come l’artropatia psoriasica, le vasculiti, soprattutto quelle anca-associate, la sclerodermia, alcune miopatie infiammatorie idiopatiche, l’osteoporosi, perché il fumo accelera la perdita di massa ossea, aumentando il rischio di fratture". "Purtroppo – aggiunge il professor Doria – ci sono dati sull’esistenza di questo legame, seppur in misura ridotta, anche con il fumo passivo. Diversi studi hanno dimostrato come i bambini che vi sono esposti abbiano maggiori probabilità di sviluppare l’artrite reumatoide. Un altro aspetto preoccupante è che smettendo di fumare si riduce il proprio rischio di andare incontro a una malattia reumatologica solo dopo molto tempo: 5 anni, ad esempio, per il Lupus e addirittura 30 anni per l’artrite reumatoide

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Alberto Dott. Albarelli

Albo degli Odontoiatri di Forlì-Cesena

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L’esercizio fisico stabilizza la vitamina D anche senza integratori o perdita di peso

(da Doctor33)     Nei mesi invernali, quando la luce solare è scarsa, i livelli di vitamina D tendono a diminuire, con possibili conseguenze sulla salute. Un nuovo studio denominato VitaDEx e condotto da un team internazionale di ricercatori delle Università di Bath, Birmingham e Cambridge (Regno Unito), pubblicato su “Advanced Science”, ha dimostrato che l’esercizio fisico aerobico di moderata intensità aiuta a preservare i livelli di vitamina D anche in assenza di perdita di peso o integrazione. Lo studio ha coinvolto un gruppo di adulti in sovrappeso o obesi, sottoposti a un programma di esercizio fisico indoor di dieci settimane nei mesi invernali. I partecipanti hanno svolto quattro sessioni settimanali: due camminate su tapis roulant, un allenamento prolungato in bicicletta a intensità costante e una sessione di intervalli ad alta intensità. Al termine della sperimentazione, chi aveva seguito il programma ha registrato un calo significativamente minore dei livelli complessivi di vitamina D rispetto ai soggetti sedentari: una riduzione del 15% contro il 25% del gruppo di controllo. Un dato particolarmente rilevante riguarda la forma attiva della vitamina D, la 1,25(OH)₂D₃, fondamentale per la salute delle ossa, il funzionamento del sistema immunitario e di vari organi. Mentre nei partecipanti sedentari questa forma attiva è calata del 15%, nei soggetti allenati è stata completamente preservata, suggerendo che l’esercizio fisico possa avere un effetto protettivo indipendente dall’esposizione solare o dall’integrazione. Studi precedenti indicano infatti che i soli integratori non sono sufficienti a mantenere stabili i livelli della forma biologicamente attiva della vitamina D. Oly Perkin, autore principale dello studio e membro del Centre for Nutrition, Exercise and Metabolism presso il Department for Health dell’Università di Bath, ha sottolineato: «Questo è il primo studio che dimostra come l’esercizio fisico, da solo, possa contrastare il calo invernale della vitamina D. È un potente promemoria di quanto ancora abbiamo da scoprire sui benefici dell’attività fisica per la salute». Lo studio è stato condotto tra ottobre e aprile, periodo in cui la produzione di vitamina D da esposizione solare è minima nel Regno Unito, e ai partecipanti è stato chiesto di evitare integratori per garantire che i risultati fossero attribuibili esclusivamente all’esercizio fisico. Dylan Thompson, senior author dello studio VitaDEx, ha evidenziato: «I risultati dimostrano che ogni singola sessione di esercizio aumenta la concentrazione dei metaboliti della vitamina D e che la pratica regolare stabilizza i livelli basali nei mesi invernali. Questo implica un doppio vantaggio: un incremento immediato e un miglioramento della stabilità nel lungo periodo». Con oltre cinquanta partecipanti e un rigoroso disegno sperimentale basato su uno studio controllato randomizzato, la ricerca offre prove solide sull’efficacia dell’esercizio fisico nel preservare i livelli di vitamina D in inverno, soprattutto nelle persone in sovrappeso o obese, per le quali gli integratori risultano meno efficaci. Thompson ha evidenziato inoltre le implicazioni per le politiche sanitarie: «L’attività fisica dovrebbe essere inclusa nelle strategie per migliorare lo stato della vitamina D e il metabolismo durante l’inverno». (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/40349161/)